Il primo capitolo dell’enciclica si apre con l’osservazione che nel suo complesso la comunità umana sta tornando indietro rispetto alle conquiste storiche del secondo dopo guerra. Il nostro è un tempo caratterizzato da nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti ed aggressivi; dall’egoismo e dalla perdita di senso sociale. La globalizzazione si sta affermando come un processo di apertura dei mercati e chiusura di umanità. Si profila un mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Le persone sono ridotte a consumatori e spettatori, spinte a consumare senza limiti e verso un individualismo senza contenuti. Dominano la cultura dello scarto, l’indifferenza e la colonizzazione culturale. L’imporre un modello culturale unico favorisce l’identità dei più forti, dissolve l’identità dei più deboli e poveri, rendendoli più vulnerabili e dipendenti. I paesi forti sono presentati come modelli culturali per i paesi in via di sviluppo, invece di fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare a partire dai valori della propria cultura. Tutto ciò favorisce una bassa autostima e disprezzo della propria identità culturale e questo meccanismo rende facile dominare le persone e le comunità. Dietro le tendenze ad omogeneizzare il mondo, affiorano interessi di potere; si cerca di creare una nuova cultura al servizio dei più potenti. Da ciò traggono vantaggio l’opportunismo della speculazione finanziaria e lo sfruttamento. La grande sfida di oggi è la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità. Come afferma FT 53,
Si dimentica che «non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri».
Cresce invece la cultura dei “muri”, dell’esclusione, che si oppone all’incontro con altre culture ed altra gente. L’ossessione per lo stile di vita consumistico – privilegio di pochi – provoca violenza e distruzione reciproca. La chiusura nell’atteggiamento del “si salvi chi può” porta al tutti contro tutti. Come, invece, la pandemia del COVID ci insegna, nessuno si salva da solo, ma ci si può salvare soltanto insieme. È necessario, pertanto, ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza. Abbiamo bisogno di recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni.
Si comincia con il metterci seduti ad ascoltare l’altro è il paradigma di un atteggiamento accogliente, di chi accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio. E si continua cercando assieme la verità nel dialogo, un cammino perseverante, fatto anche di silenzi e sofferenze, capace di raccogliere con pazienza la vasta esperienza delle persone e dei popoli.