“Daniele Comboni ha vissuto il suo ministero missionario facendo causa comune con i popoli dell’Africa. Questa opzione di mettersi in gioco a fianco degli ultimi per camminare con loro all’incontro con il Risorto oggi richiede la capacità di impiegare approcci partecipativi. Anzitutto per promuovere la soggettività, il protagonismo degli esclusi (cf. la “rigenerazione dell’Africa con l’Africa”). Ma, soprattutto, si tratta di fare un accompagnamento che spesso parte da situazioni di crisi, affrontando realtà spesso schiaccianti senza avere soluzioni pronte a portata di mano. Anche se fragili e vulnerabili, e limitate in tutti i modi, le persone insieme possono riuscirci, se attingono alla creatività che viene dall’amore. La sfida allora è quella di adottare percorsi che evocano l’umanità nei partecipanti, stimolano il loro potere di amare, li collegano tra loro e agli inviti dello Spirito Santo per dare risposte nuove e trasformanti”.
La secolarizzazione è un tratto caratteristico del nostro tempo. Come ha acutamente osservato Alexander Schmemann nel libro: Per la vita del mondo, la secolarizzazione in sé, non è tanto la negazione del trascendente, quanto la separazione tra dimensione materiale e spirituale della realtà. Il cristianesimo ha rivelato il superamento della barriera tra umano e divino in Gesù, attraverso l’incarnazione. Attraverso la risurrezione di Gesù, ci è stato rivelato il senso ed il destino della Creazione, non come un qualcosa che appartiene ad un altro mondo, separato, ma come una realtà già presente – il Regno di Dio – che però attende ancora il completo compimento. Tuttavia, nella cultura contemporanea il senso religioso, con la separazione tra sacro e profano, è ritornato alla ribalta. Come nota Schmemann, la secolarizzazione è la grande eresia del nostro tempo, nata all’interno del cristianesimo, anziché come nei primi secoli dall’incontro con un’altra cultura e visione del mondo.
Effetto della secolarizzazione è tanto il materialismo quanto lo spiritualismo. Così da un lato notiamo varie manifestazioni di una cultura immanentista, che guarda alla materialità della realtà in un orizzonte di senso che non ha bisogno di Dio. Dall’altro, c’è un forte ritorno alla religione come senso del sacro, che spiritualizza la realtà rimandando ad un altro mondo, con conseguente deresponsabilizzazione per questo mondo in cui viviamo. Ricordo, ad esempio, quando nel 2001 partecipai ad un’iniziativa di mappatura di alcune baraccopoli di Nairobi, condotta dagli stessi residenti. Ne risultò che in quegli insediamenti informali c’erano più chiese che latrine (che erano una ogni mille abitanti circa). Una fede che non ha niente da dire – e soprattutto da agire – su tali condizioni indegne per l’umanità sconfina nello spiritualismo alienante.
Il ministero sociale è una risposta ispirata dalla fede in Gesù risorto alle situazioni disumanizzanti, di ingiustizia e di devastazione ambientale, caratterizzata dall’inclusione della dimensione di fede nel processo di trasformazione sociale e dal suo approccio e metodologia ministeriale.
1. L’inclusione di una dimensione di fede nel processo di trasformazione sociale
La profezia nella tradizione biblica richiama il popolo all’Alleanza con Dio, denunciando la caduta di quella relazione vitale. Ciò è evidente nell’ingiustizia sociale, nell’oppressione dei più deboli, nella violenza e sfruttamento che li schiacciano. Come ha efficacemente argomentato Walter Bruggemann nel L’immaginazione profetica, la profezia interpreta due ruoli fondamentali: svelare l’ingiustizia del sistema oppressivo e aprire percorsi alternativi, nuove configurazioni al vivere assieme che interpretino il sogno di Dio. E questo richiede una trasformazione sociale, vale a dire un cambiamento tanto di mentalità quanto di strutture sociali. Tanto il vino quanto gli otri devono essere nuovi: una conversione, una nuova mentalità senza nuove strutture sociali è sterile, non porta frutto e finisce per essere riassorbita nei vecchi atteggiamenti; nuove strutture senza uno spirito nuovo vengono ben presto corrotte e così ci si accorge che nonostante i grandi cambiamenti intervenuti tutto in fondo è rimasto come prima.
Il senso dell’impegno per la trasformazione sociale è quello della fedeltà all’Alleanza, al sogno di Dio rivelato in Gesù di Nazareth. Un sogno che mostra il legame tra fede e responsabilità sociale, che motiva l’azione dei fedeli nella società, illumina la loro visione umanistica, e dà vita ad una tradizione sociale che nella storia continua a mobilitare persone, risorse e percorsi per la trasformazione sociale. Come, ad esempio, fanno le piccole comunità cristiane (jumuiya ndogo ndogo) nelle baraccopoli di Nairobi, che si riuniscono settimanalmente tra le baracche per condividere la Parola e la vita, e per rispondere con concretezza agli inviti dello Spirito. Ogni membro si presta per un servizio (huduma), che può essere un ministero rivolto alla comunità cristiana, come il servizio della Parola (animazione biblica), della fede (catechesi), o della liturgia. Oppure un ministero rivolto al vicinato, come quello rivolto ai più poveri, agli ammalati, all’ambiente, alla giustizia e pace, e così via. Il loro servizio semplice è espressione di misericordia, di dono di sé, con gratuità: un contributo fondamentale alla trasformazione sociale. Di fronte alla complessità della realtà e delle questioni sociali, serve anche collegare questa realtà a percorsi più strutturati e in rete con altri attori e livelli di cambiamento, attraverso la collaborazione ecumenica, interreligiosa e con la società civile.
Quando ci si apre a questa scala più ampia, che significa andare missionariamente oltre i confini ecclesiali per vivere e testimoniare il Vangelo, avviene una crescita umana e di fede. L’incontro con l’altro, diverso da sé, ci fa crescere, ci arricchisce, ci trasforma e ci aiuta a scoprire nuovi aspetti del mistero di Dio di cui ancora non abbiamo fatto esperienza. Tuttavia, facilmente troviamo formidabili resistenze a questa dinamica anche in ambito ecclesiale, dovute forse alla paura di “perdere” la propria identità. Timore questo che negli ultimi anni si è fatto comprensibilmente sempre più pressante, con l’imporsi di contesti plurali, molto diversificati, multiculturali. Eppure, è proprio il mistero dell’Incarnazione che ci invita a questo percorso: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini” (Fil 2,5-7).
Anche per le comunità cristiane, questa apertura, questa kenosi ispirata da quella di Gesù, è parte del percorso di conversione, di un processo aperto in cui i ministri sociali partecipano e sono trasformati insieme alla loro comunità e alla società. Il ministero sociale non può mai essere ridotto a un “progetto” o a una competenza professionale. La vita, la persona umana e le relazioni vanno ben oltre ciò che le capacità organizzative, manageriali, tecniche o professionali possono controllare. Anche se il ministero sociale può fare uso di progetti per rispondere al bisogno di cambiamento in una data situazione sociale, un’eventuale trasformazione non può essere misurata con i parametri utilitaristici del progetto. Il mistero della vita comporta anche i suoi propri tempi e dinamiche che trascendono la pianificazione umana e che devono essere riconosciuti e rispettati.
2. L’approccio ministeriale
Nella collaborazione con gruppi diversi della società civile, i ministri sociali possono anche avere in comune con gli operatori dello sviluppo e del sociale metodi e tecniche di intervento, ma la loro azione è caratterizzata comunque dalla dimensione ministeriale. Questo significa anzitutto essere espressione di gruppi e comunità di fede, operare assieme a loro, sia in attività che rispondono alla loro situazione e difficoltà, sia in forza di un mandato della comunità ecclesiale che ci spinge al di là dei propri confini per rispondere a preoccupazioni che riguardano il mondo intero.
In secondo luogo, significa camminare assieme alla gente, che richiede accompagnamento, comprensione delle persone e delle situazioni, facilitazione dei processi di gruppo e comunitari, abilitazione e responsabilizzazione della gente. Bisogna avere fiducia in loro, dialogare, collaborare, essere in solidarietà, fare causa comune con loro.
Altro aspetto caratterizzante è quello della spiritualità cristiana, un aspetto fondamentale in prospettiva ministeriale. Nella dimensione spirituale confluiscono sia la visione del mondo (riferimenti essenziali per la comprensione della realtà, credenze, valori, motivazioni, atteggiamenti, ecc.); sia l’esperienza di fede del ministro e della comunità. La spiritualità alimenta il ministero, la crescita e la trasformazione sociale; è fondamentale nel processo di discernimento, nel dare senso alla realtà, nel superare le difficoltà e i momenti e le situazioni più oscure nel cammino di trasformazione, e nel far emergere una nuova consapevolezza, una prospettiva evangelica.
C’è poi un senso vocazionale nel fare ministeriale: ci si aspetta che i ministri abbiano una dedizione totale e diano tutto se stessi alle persone nel loro ministero perché gli altri abbiano la vita e la vita in pienezza. Questo è possibile quando si ha un forte senso della vocazione che motiva e dà senso alle proprie scelte e azioni, un senso di missione. Un’operatrice esperta di sviluppo e giustizia sociale, diventata ministro sociale dopo 20 anni di pratica, ha motivato la sua scelta dicendo che si è resa conto che nel suo lavoro poteva avere a grandi linee solo due atteggiamenti di base possibili: o quello di essere una “missionaria” o quello di essere una “mercenaria”. La differenza sta nel dare la propria vita, pagando il prezzo della trasformazione per cui si lavora (cf. Gv 10).
Infine la collaborazione: il ministero non si fa mai da soli, ma in equipe e richiede un mandato da parte di una comunità (non ci sono ministri “autoproclamati”), cioè non agiscono a proprio titolo, ma in nome di una comunità cristiana, con la quale sono in comunione. Inoltre, tali comunità cristiane sono chiamate ad essere in comunione con tutta la chiesa e pertanto i ministri sociali sono parte di un grande movimento ecclesiale e sono chiamati partecipare al cammino sinodale.
3. La metodologia del Ciclo Pastorale e la trasformazione sociale
Questa metodologia è ciò che dà alla pastorale sociale la sua particolare struttura operativa, integrando la competenza professionale nello sviluppo umano integrale e nel lavoro sociale con le competenze ministeriali.
L’essenza del ciclo pastorale è il metodo Vedere – Giudicare – Agire, definito formalmente negli anni 1920 da Joseph Cardijn, un prete belga con una formazione in studi sociali, e dal movimento dei Giovani Lavoratori Cristiani. Lo chiamarono “Revisione della vita”. Nell’ambiente delle fabbriche industriali del Belgio, molto ostili alla Chiesa e che abbracciavano il socialismo o il comunismo, i membri di questo movimento riflettevano sulla relazione tra fede e lavoro. Il metodo comportava un’osservazione della vita (un’indagine sociale all’interno delle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche), interpretando quella realtà alla luce della Parola e agendo per porre rimedio alla sofferenza e al disagio all’interno delle situazioni esaminate. Cardijn aveva un interesse particolare per la classe operaia, specialmente nelle fabbriche e nelle miniere; una classe sociale che era persa per la Chiesa, che era percepita come sostenitrice dell’aristocrazia e dei governanti del tempo. La sua metodologia aveva lo scopo di educare sia il raziocinio (soprattutto nel guardare i fatti, le prove e le cause delle situazioni sociali) che il cuore (in particolare attraverso la riflessione guidata dalla Bibbia, volta a contrastare la realtà con la verità del destino umano), partendo dalla sofferenza delle persone, dei lavoratori e delle famiglie in particolare.
Il metodo è in seguito formalmente approvato da Papa Giovanni XXIII nella sua Lettera Enciclica Mater et magistra (n. 217), che lo raccomanda per rispondere alle questioni sociali. Poco dopo, questa metodologia è diventata una caratteristica del movimento della teologia della liberazione in America Latina, e ampiamente diffusa e popolarizzata. Così lo schema Vedere – Giudicare – Agire nella Teologia della Liberazione prende la fisionomia di analisi sociale, riflessione teologica e pianificazione pastorale. Ma c’è un contributo particolare aggiunto: la teologia della liberazione ha integrato l’uso delle scienze sociali nel metodo teologico, e ha introdotto nella riflessione teologica un’enfasi sulla narrativa e la teologia dell’Esodo e della letteratura profetica.
Nel 1980 Joe Holland e Peter Henriot pubblicarono Social Analysis: Linking Faith and Justice, in cui presentavano un’elaborazione della metodologia del Circolo Pastorale. Qui abbiamo l’idea di un processo ciclico e l’introduzione dell’articolazione del primo passo (vedere) in due elementi, cioè inserzione e analisi sociale. Da allora la metodologia ha guadagnato sempre più popolarità e adattamenti a vari contesti. Ecco perché oggi ci si riferisce ad essa con una varietà di nomi e versioni (circolo, ciclo o anche spirale pastorale), con 4 (inserzione, analisi socioculturale, riflessione teologica, processo di azione), 5 o anche 6 elementi. Ma fondamentalmente, tutti si riferiscono alla stessa metodologia. Infatti, l’elemento dell’azione viene spesso articolato per mettere in evidenza dei passaggi che si tende a tralasciare, come la verifica e la celebrazione, che vengono così sottolineati perché non vengano dimenticati.
Come Paulo Freire ha evidenziato nel suo classico Pedagogia degli oppressi, accompagnare gruppi umani e comunità oppresse richiede di affrontare la sfida della liberazione, che solo gli esclusi possono operare per se stessi. Le situazioni di oppressione, infatti, comportano delle conseguenze su chi le soffre che costituiscono un blocco formidabile al processo di liberazione: come, ad esempio, la cultura del silenzio, che porta a convivere con l’ingiustizia come se fosse “normale”; l’apatia ed il senso di impotenza; e la violenza orizzontale – che arriva fino ad assumere la forma di “guerra tra poveri” – che divide le comunità. Così la chiave per avviare processi di cambiamento sta nel trovare un punto di partenza adeguato, che generi la motivazione e l’energia necessarie per intraprendere il cammino e superare le inevitabili difficoltà lungo il percorso. Il ciclo pastorale non è solo uno strumento di intervento, ma un processo organizzato che inizia con l’inserzione del ministro sociale nella comunità per stabilire relazioni significative, capire le persone e la situazione in cui vivono; costruire la fiducia, la speranza, il dialogo e la cooperazione necessari per qualsiasi cammino ministeriale, e identificare il punto di partenza adeguato per avviare un processo di trasformazione. Il ciclo pastorale parte dalla realtà e dalle persone così come sono, specialmente i poveri e gli oppressi, incarnando uno dei principi guida enunciati nella Evangelii gaudium (217-237), in particolare quello per cui la realtà è più importante dell’idea (EG 231-233).
Un’altra grande sfida per la liberazione è quella del passaggio da una coscienza ingenua, superficiale e a volte irrazionale della realtà alla consapevolezza critica, cercando le cause e le conseguenze profonde delle situazioni studiate e le alternative cariche di potenziale trasformativo. Tale cambiamento segna l’inizio del processo di empowerment della comunità, perché quando la gente comincia a vedere chiaramente oltre la cortina fumosa della complessità e delle narrazioni strumentali, è in grado di cominciare a riappropriarsi del proprio potere di cambiare le cose.
Man mano che la gente cresce nella consapevolezza critica della propria situazione, delle cause e dei meccanismi che l’hanno portata all’esistenza e la perpetuano comincia a vedere che è possibile affrontare tali dinamiche. Tuttavia, non necessariamente sceglieranno di lottare per il cambiamento; è probabile che quando vedono come funziona il potere dominante, possano desiderare semplicemente di ottenere una posizione di dominio. Ma questo non porta alcuna trasformazione sociale, perché il sistema oppressivo in quanto tale rimane intatto. Quindi, un altro cambiamento richiesto è quello di abbandonare consapevolmente la logica e i meccanismi del sistema dominante ed essere guidati da una visione alternativa, da nuovi atteggiamenti e rapporti di potere. In pratica, questo comporta il superamento di tattiche antidialogiche come il divide et impera, la manipolazione, l’imposizione di valori e presupposti, o prospettive della realtà che tutelano gli interessi di chi domina sugli altri. Invece, un processo di liberazione richiede che le persone si rigenerino in nuovi atteggiamenti, come la cooperazione, l’unità, l’organizzazione collettiva e la sintesi culturale. La fase di riflessione teologica aiuta ad operare questo passaggio di conversione, facilita la demistificazione dei sistemi oppressivie il risveglio delle alternative e del potere di attuarle. Tiene in considerazione le preoccupazioni, le sofferenze, le angosce e le forti emozioni delle persone, perché queste sono una realtà – molto spesso soppressa – che permette loro di svelare i falsi presupposti e i miti indiscussi che sono dominanti e comunemente accettati nella società. Inoltre, la riflessione teologica fa emergere le speranze genuine delle persone, le loro aspirazioni, i loro sogni per un mondo migliore; ispira la comunità all’azione e offre una prospettiva per il discernimento e la decisione dell’azione da intraprendere; la aiuta a trascendere le differenze senza annullarle, costruendo quella comunione che ha l’aspetto del poliedro – per usare un’immagine cara a papa Francesco – e che illustra il principio che il tutto è superiore alle parti ed anche alla loro somma (EG 234-237).
Molto spesso la realtà è complessa, ambigua e contraddittoria, così che può non essere del tutto chiaro cosa è bene e cosa è male. Infatti, le azioni possono essere ambivalenti, avendo sia aspetti positivi che negativi mescolati tra loro. Questo è un altro contesto in cui la riflessione teologica può aiutare una comunità a discernere il suo ruolo e le sue responsabilità (cioè la sua missione) e le conseguenti azioni che è chiamata a intraprendere.
Alla fine, la comunità dovrà impegnarsi in un processo di azione (pianificazione, implementazione, monitoraggio e valutazione, celebrazione), con la responsabilizzazione delle persone direttamente toccate dalla situazione. Questo è il livello dei programmi di servizio, delle iniziative comunitarie o di gruppo. Non si tratta semplicemente di arrivare a dei risultati immediati o di imporre delle soluzioni parziali, o anche di realizzare un progetto, ma di avviare processi, dei percorsi di trasformazione, in linea con il principio che il tempo è superiore allo spazio. (EG 222-225). Tale prospettiva aiuta a interagire con la complessità senza operare indebite semplificazioni, che per risolvere dei problemi finiscono per crearne altri.
Ad ogni modo, la complessità resta sempre una sfida e facilmente può provocare lo scontro che genera divisione. Ma questo è un passaggio obbligato sul sentiero che porta all’unità. La cultura dell’incontro – fatta di atteggiamenti, prassi e spiritualità – può aiutare a preparare il terreno per un incontro delle differenze capace di superare il conflitto (cf. l’unità prevale sul conflitto, EG 226-230).
Conclusione
Daniele Comboni ha vissuto il suo ministero missionario facendo causa comune con i popoli dell’Africa. Questa opzione di mettersi in gioco a fianco degli ultimi per camminare con loro all’incontro con il Risorto oggi richiede la capacità di impiegare approcci partecipativi. Anzitutto per promuovere la soggettività, il protagonismo degli esclusi (cf. la “rigenerazione dell’Africa con l’Africa”). Ma, soprattutto, si tratta di fare un accompagnamento che spesso parte da situazioni di crisi, affrontando realtà spesso schiaccianti senza avere soluzioni pronte a portata di mano. Anche se fragili e vulnerabili, e limitate in tutti i modi, le persone insieme possono riuscirci, se attingono alla creatività che viene dall’amore. La sfida allora è quella di adottare percorsi che evocano l’umanità nei partecipanti, stimolano il loro potere di amare, li collegano tra loro e agli inviti dello Spirito Santo per dare risposte nuove e trasformanti.
Alberto Parise, MCCJ