UNO STUDIO DI DUE CASI ALLA LUCE DEL MAGISTERO SOCIALE DELLA CHIESA

La spiritualità della nonviolenza nella Pacem in terris

Nella Pacem in terris, Giovanni XXIII si dimostra un profondo conoscitore della spiritualità della nonviolenza, ad esempio quando afferma che la ricerca della Verità è un elemento di relazione e di comunione permanente tra Dio e l’uomo: “Inoltre in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità. E l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per cui chi in un particolare momento della sua vita non ha chiarezza di fede, o aderisce ad opinioni erronee, può essere domani illuminato e credere alla verità” (PT 83).

Qui il Papa sta affermando che, da un lato, l’uomo – per sua natura – è aperto alla Verità; dall’altro, Dio continua ad agire nella nostra coscienza come forza di Verità, e quindi è sempre possibile per ogni essere umano – per quanto affondato nell’errore – aprirsi alla luce della verità.

Non bisogna dimenticare che Giovanni XXIII disse queste cose in un clima di estrema opposizione ideologica tra il marxismo e l’Occidente capitalista “cristiano”. Tanto più sorprendente, quindi, è questa fiducia nell’azione della Verità nel cuore di ogni uomo, che portò il Papa a superare ogni sentimento di intransigenza e di intolleranza nei confronti del presunto nemico della Chiesa. A suo avviso, infatti, la Verità è molto più grande – e più saggia – di tutti i nostri meschini schemi ideologici, e sa produrre frutti di bene laddove i nostri pregiudizi non si aspetterebbero di trovare alcuna possibilità di buon raccolto.

Per questo il Papa afferma che dobbiamo “Non si dovrà però mai confondere l’errore con l’errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità” (PT 83).

La stessa distinzione che Giovanni XXIII fa – a livello individuale – tra l’errore e l’errante, la fa poi – a livello sociale – tra le ideologie “atee” e i movimenti politici che in qualche modo vi si ispirano. Questa distinzione si basa sempre su un’estrema fiducia nell’azione dinamica della Verità, perché “Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi” (PT 84).

In altre parole, anche i membri di partiti politici “atei” possono ascoltare la voce della verità, e così questi movimenti possono evolversi e orientarsi sempre più verso questa verità. Ecco perché – diceva Giovanni XXIII, sconvolgendo alcuni – nel comune amore per la verità è possibile stabilire rapporti di collaborazione tra cattolici e non cattolici, per “per il raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità” (PT 85).

Questa fiducia nell’azione della verità fa affermare al Papa che la pace e il disarmo sono un obiettivo che “può essere conseguito” (PT 61), richiesto non solo dalla fede nel Vangelo ma anche dalla “retta ragione e dal senso della dignità umana”. Per questo il “Papa buono”, con grande semplicità, chiede “che venga arrestata la corsa agli armamenti” e “si mettano al bando le armi nucleari” (PT 60), poiché gli sembra che si tratti di obiettivi ragionevoli che una politica ispirata dal Vangelo – o semplicemente dalla ragione umana – può e deve raggiungere.

Arriviamo così all’elemento più profetico della Pacem in terris. Prima di questa enciclica, la pace era stata considerata – dal Magistero – un obiettivo desiderabile ma irraggiungibile nelle relazioni tra gli Stati. Da qui la legittimazione di un doppio standard per la vita interpersonale e per la politica internazionale, con la legittimazione della “guerra giusta”, vista come un inevitabile male minore. Giovanni XXIII, invece, grazie alla sua fede nell’azione universale della Verità, riuscì a superare questo schema teologico che aveva prevalso per molti secoli. Secondo il Papa, infatti, è “Sarebbe del resto assurdo anche solo il pensare che gli uomini, per il fatto che vengono preposti al governo della cosa pubblica, possano essere costretti a rinunciare alla propria umanità ” (PT 47). E la condizione umana è caratterizzata – innanzitutto – dal suo naturale orientamento alla Verità. Per questo motivo è necessario stabilire come principio inalienabile che “I rapporti fra le comunità politiche vanno regolati nella verità” (PT 49). In altre parole, “La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche” (PT 47).

La stessa legge dell’amore per i nemici e della rinuncia alla spada deve valere sia per le relazioni interpersonali sia per le relazioni tra comunità politiche.

Come conseguenza di quanto detto finora, il Papa arriva ad affermare l’impossibilità – razionale e morale – di giustificare qualsiasi tipo di guerra: “riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (PT 67). L’italiano impossibile pensare traduce un’espressione molto forte dell’originale latino: “a ratione alienum”, cioè “estraneo alla ragione”. Quindi, per il “Papa buono”, sostenere che nell’epoca dei missili balistici e delle armi atomiche si possano ancora rispettare le condizioni della “guerra giusta” è qualcosa di alieno alla ragione, qualcosa che solo dei “malati di mente” potrebbero sostenere.

LA MARCIA DEI 500 “DISARMATI” A SERAJEVO NEL 1992

Dopo la morte di Tito, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha subito un processo di dissoluzione che ha portato alla guerra iniziata nel 1991. A quel tempo ero un laico che viveva in Italia. Era una novità per l’Italia avere una guerra alle porte di casa. La politica ufficiale sembrava impotente ad affrontare questo conflitto. Allora alcune persone e alcune associazioni si chiesero: di fronte all’impotenza dei politici, possiamo noi, come membri della società civile, non fare nulla per cercare di opporci a questa guerra?

In particolare, il Movimento “Beati i costruttori di pace” (BCP), guidato da don Albino Bizzotto a Padova, ha iniziato a pensare a un’iniziativa di intervento nonviolento nella zona di guerra. Si trattava di una proposta di diplomazia popolare.

Per “diplomazia popolare” intendiamo un’iniziativa nonviolenta a livello internazionale che parta dal basso, dalla società civile. In questo senso, la diplomazia popolare potrebbe essere considerata una forma di disobbedienza civile alla diplomazia ufficiale, cioè all’inerzia del governo stesso di fronte a una grave situazione di violenza vissuta da un altro popolo. Durante la guerra nell’ex Jugoslavia, molti cittadini comuni delle nazioni vicine hanno cominciato a dubitare delle capacità dei propri diplomatici professionisti e hanno guardato con sospetto alla facilità con cui le armi distruttive raggiungevano l’ex Jugoslavia passando per il proprio Paese. Tutto ciò, in effetti, indicava una possibile complicità tra il governo stesso, i trafficanti di armi e i “signori della guerra” jugoslavi. Così, nel dicembre 1992, 500 attivisti nonviolenti provenienti da diversi Paesi europei entrarono – con un’iniziativa di interposizione nonviolenta – nella città martire serba assediata di Sarajevo.

Il conflitto nell’ex Jugoslavia ha contrapposto tre gruppi etnici: serbi, croati e bosniaci. In particolare, Sarajevo, la capitale bosniaca, era sotto assedio da parte dei serbi, che controllavano i movimenti di terra verso la città. La capitale assediata era praticamente isolata. A causa della scarsità di rifornimenti, la maggior parte della popolazione aveva perso 10-15 chili.

L’obiettivo principale di questi pacifisti, quindi, era quello di rompere – almeno per qualche giorno – l’assedio di Sarajevo, dove la popolazione, completamente isolata dal resto del mondo, viveva in una sorta di enorme campo di sterminio. Molti in Italia e in Europa cercarono di dissuadere questi pacifisti, sottolineando che andare a Sarajevo in piena guerra significava rischiare la propria vita in modo stupido.

L’anno precedente, alcuni piloti dell’esercito italiano avevano rischiato la vita nella Guerra del Golfo (e due di loro erano stati catturati dagli iracheni). Perché, si chiedevano questi pacifisti, si accetta che i soldati rischino la vita per partecipare a una guerra, ma si considera del tutto irrazionale che alcuni cristiani rischino la vita per la pace? Rischiare la propria vita per andare a uccidere altre persone sembra ragionevole, ma rischiare qualcosa per il Vangelo della pace sembra assurdo.

Alla fine i pacifisti, che viaggiavano in autobus, riuscirono a entrare a Sarajevo. Don Giulio Battistella, uno dei partecipanti, commenta: “Ci dicevano che eravamo pazzi perché per andare a Sarajevo dovevamo passare attraverso il territorio controllato dai serbi, quelli che bombardavano i bosniaci a Sarajevo. Potevamo dire ai serbi: – Lasciateci passare, vogliamo essere solidali con i vostri nemici – Sembrava impossibile, ma è andata così: i serbi ci hanno fatto entrare in città. Questa avventura ha dimostrato che può esistere un legame tra politica e utopia. Il limite di ciò che è “politicamente fattibile e possibile” può andare oltre quello che pensiamo: dobbiamo provare, dobbiamo rischiare qualcosa per la pace. Come diceva Giovanni XXIII, coloro che sbagliano sono comunque persone, nelle quali Dio ha inscritto la Legge della verità; è possibile dialogare anche con loro; questo è stato un esempio molto chiaro.

Ma c’era un problema: i 500 entrarono a Sarajevo quando era già buio, alle 4.30 del pomeriggio di dicembre, e le Nazioni Unite, presenti in città, avevano stabilito il coprifuoco alle 14.00. Di notte, nessuno accendeva una luce per non attirare l’attenzione dei numerosi cecchini. Ma in quell’occasione, diverse persone accesero una luce alle finestre per accogliere queste persone venute da lontano per dare un messaggio di pace e solidarietà. Come ha detto mons. Tonino Bello, che ha partecipato all’iniziativa: “Mentre l’ONU dei governi decreta il coprifuoco, l’ONU dei popoli cammina per incontrare la città assediata”. La diplomazia popolare nonviolenta è riuscita ad andare oltre quanto stabilito dalla diplomazia ufficiale. Le persone che hanno acceso una candela rischiavano la vita, attirando l’attenzione dei cecchini, ma hanno voluto correre questo rischio come segno di gratitudine verso i 500 volontari.

Il giorno successivo è stata organizzata una marcia per la pace nelle strade della capitale bosniaca, seguita da un incontro nel teatro cittadino. Alla marcia hanno partecipato i rappresentanti dei tre gruppi etnici presenti a Sarajevo: bosniaci, croati e serbi. Tonino Bello ha pronunciato parole profetiche e commoventi: “Dobbiamo indicare la strada verso la terra dove il lupo e l’agnello mangeranno insieme. Se noi credenti non abbiamo queste grandi aspettative nei confronti del Vangelo e della Bibbia, che cosa siamo qui a fare? Queste forme di utopia, questi sogni che dobbiamo promuovere; se non lo facciamo, cosa sono le nostre comunità? Sono solo i notai dello status quo, e non le sentinelle profetiche che annunciano nuovi cieli, nuova terra, nuovi mondi. Queste idee un giorno fioriranno. Gli eserciti di domani sono questi: uomini e donne disarmati”.

Naturalmente questa iniziativa – forse la prima nel suo genere – non ha posto fine alla guerra, ma ha lasciato un segno profondo nell’opinione pubblica, perché ha aperto nuove prospettive, mostrando un nuovo spazio di azione per la società civile. Don Battistella, uno di coloro che si sono recati a Sarajevo, ha commentato: “Riaccendere la speranza, ecco il senso di questa iniziativa. Come un fiammifero, che dà luce per un momento e poi si spegne, ma lascia il suo fumo. E queste piccole fiamme possono indicarci strade insospettabili da seguire. In altre parole, questa iniziativa è stata come una piccola fiamma che ci ha fatto intravedere nuove possibilità, nuove strade da seguire.

Dopo che i 500 lasciarono la città, il BCP aprì una presenza permanente a Sarajevo, organizzando vari tipi di servizi per la popolazione. Uno di questi fu l’organizzazione di un servizio minimo di posta internazionale, per mantenere i contatti tra coloro che erano rimasti in città e i loro parenti che avevano lasciato il Paese. Un gruppo di volontari di Padova riceveva le lettere e, tramite gli aerei dell’ONU, le spediva a Sarajevo. Lì, alcuni volontari del BCP hanno lavorato come postini, andando personalmente a consegnare le lettere, sempre sotto la minaccia dei cecchini, ai destinatari. Un volontario ha dato questa testimonianza: “Ho portato la lettera a un’anziana signora. Ha aperto la lettera e ha pianto per l’emozione. È da parte di mio figlio”, ha detto. Pensavo fosse già morto, ma ora mi scrive che è a Vienna, è vivo! Oggi è il mio compleanno: non potevate farmi un regalo migliore di questo: sapere che mio figlio è vivo. Grazie! Grazie dal profondo del mio cuore!

Don Bizzotto commenta: “Vedere persone che vengono da altri Paesi non per uccidere (come i mercenari) o per vendere armi, ma per stare con la gente, giocare con i bambini, aiutare a organizzare meglio il campo per gli sfollati… dimostra che in questo mondo non ci sono solo persone che sparano, odiano e uccidono. La presenza del volontario nonviolento diventa così un segno di speranza per le vittime della guerra”.

Questi interventi organizzati da parte di comuni cittadini sono legittimati dal diritto internazionale. Ad esempio, secondo il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966, “l’individuo ha certi doveri verso gli altri e verso la comunità a cui appartiene, e deve sforzarsi di promuovere e rispettare i diritti riconosciuti in questo patto”.1 La società civile, quindi, ha il diritto – quasi il dovere –– di promuovere azioni politiche per la pace.

Un’altra dichiarazione delle Nazioni Unite – la Dichiarazione sui difensori dei diritti umani del 1998 – legittima ulteriormente queste iniziative di diplomazia popolare: “Ogni individuo ha il diritto, individualmente e in associazione con altri, di impegnarsi in attività pacifiche contro le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.2 Altri articoli della stessa Dichiarazione parlano della libertà di riunirsi e di manifestare dentro e fuori il proprio Paese. In questo modo viene definitivamente legittimata l’azione politica della società civile, a livello internazionale, in difesa dei diritti umani.

Così, in una dichiarazione del 28 ottobre 2001, alcuni movimenti nonviolenti e alcuni Istituti missionari italiani hanno rilasciato questa dichiarazione riguardo alla situazione in Congo e contemplando la possibilità di organizzare un altro intervento nonviolento: “Spesso pensiamo di essere troppo piccoli per affrontare problemi così grandi, e rinunciamo ad agire, perché solo i potenti possono decidere. Eppure sappiamo quanto siamo importanti per le persone che amiamo. Anche noi, come tanti, ci sentiamo in difficoltà, ma confidiamo in questa forza che c’è nel cuore di ognuno di noi. Finora sono state le merci a imporre le loro leggi, ma noi crediamo nella forza dell’incontro tra i popoli, nel loro prioritario diritto alla pace, ed è per questo che vogliamo camminare insieme…. Siamo consapevoli che la responsabilità della riconciliazione e della pacificazione dei popoli è anche nostra e non vogliamo delegare ad altri il compito di costruire e salvaguardare la pace “3. Con queste parole, queste associazioni e questi Istituti missionari vogliono riconfermare il diritto-dovere della società civile di occuparsi del benessere e della pace di altri popoli fratelli, senza delegare tutto a governi spesso inerti, e senza usare questa “delega” come pretesto per giustificare la nostra indifferenza.

Oggi si parla dell’importanza di superare l’indifferenza per giustificare interventi armati, presentati come “ingerenze umanitarie”. Quasi nessuno parla della necessità di superare l’indifferenza con una forma di intervento nonviolento. Solo questo sarebbe un vero “intervento umanitario”.

Bernard Häring, nella sua visione profetica, sognava che interi popoli optassero per la cultura e la prassi della nonviolenza. Questi popoli, pensava, avrebbero potuto aprire nuove prospettive per l’intera umanità, offrendole la leva archimedea con cui la cultura della violenza, apparentemente inamovibile, avrebbe potuto essere spostata e ribaltata. I popoli che rinunciassero agli eserciti e optassero per la difesa civile e la diplomazia dei popoli eserciterebbero, secondo il teologo tedesco, un’importantissima “azione missionaria sull’intera umanità, come abbiamo visto, ad esempio, nell’influenza mondiale del Mahatma Gandhi”4.

ITALIA, SPAZI INTERCULTURALI DI AUTO-NARRAZIONE

La seconda/terza esperienza che vorrei presentarvi rappresenta un’altra sfaccettatura dell’impegno nonviolento per la pace, che comprende – come sottolinea la Pacem in terris – l’abbattimento di ogni tipo di barriera che crea divisioni e la promozione dell’abbraccio di tutti i popoli: che Cristo “accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie; in virtù della sua azione, si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace.” (PT 91)

Per costruire la pace è necessario tendere la mano, rimuovere le barriere che ci impediscono di incontrarci e creare spazi in cui favorire la comprensione reciproca.

Papa Francesco riprende questo concetto nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2017, dove esprime l’auspicio “che la carità e la non violenza guidino il modo in cui ci trattiamo nelle relazioni interpersonali, sociali e internazionali”. Potremmo dire che “relazione” e incontro sono un altro nome della nonviolenza, o meglio, ne sono il fondamento. La nonviolenza, in sostanza, è sentire una relazione profonda con i nostri fratelli e sorelle e con la natura; è rispetto per ogni essere vivente, al quale ci sentiamo intimamente legati. La rinuncia alla violenza è una conseguenza naturale di questo “modo di essere”.

Così, per indicare la non violenza, Gandhi ha usato il termine satyagraha, che è la “forza della verità”, la consapevolezza della verità profonda che costituisce l’essere umano, che è essenzialmente un essere in relazione. In questo senso, il satyagraha è anche la “forza dell’amore”, quella disposizione di benevolenza verso tutto ciò che vive, verso tutto ciò con cui siamo intimamente intrecciati. La nonviolenza, quindi, è il “potere della relazione” e la consapevolezza di questo potere.

Giovanni XXIII diceva che la pace (e la nonviolenza) ha quattro pilastri: verità, giustizia, libertà e amore. L’amore, in senso biblico, è la relazione che ha raggiunto il suo stadio di realizzazione: quando il legame si approfondisce a tal punto da sentire nelle viscere il dolore e la speranza dell’altro, così da non essere felici se il fratello non è felice. Il sacro intreccio che ci costituisce come esseri umani raggiunge così la sua piena realizzazione.

In questa prospettiva, l’opposto della “non violenza” è la “non relazione”, o meglio, quella che io chiamo la “Grande Disconnessione”: quell’intorpidimento che ci fa perdere la consapevolezza di essere intrecciati e ci rende completamente indifferenti alla vita degli altri. E così, quando la “forza della relazione” muore in noi, si apre la strada a tutte le forme di violenza e perversione, sia nell’ambito della vita interpersonale che in quello della vita sociale e politica. Uno strumento importante per la costruzione della pace, quindi, è coltivare le relazioni e creare spazi di incontro.

“La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita (….). Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti.” (FT 215).

“Parlare di “cultura dell’incontro” significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti” (FT 216).

“La pace sociale è laboriosa, artigianale. (…) Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!” (FT 217).

Da queste preoccupazioni è nata l’iniziativa che ora vi presenterò, ma procediamo con ordine:

Dall’Ecuador all’Italia

Nel 2010 ero appena rientrato in Italia dopo undici anni in America Latina, chiamato a prestare servizio nella Pastorale Giovanile Comboniana di Padova. Ancora disorientato di fronte a una realtà italiana che trovavo molto diversa da quella che ricordavo, sono rimasto affascinato nel vedere che Padova è oggi una città multiculturale, caratterizzata dalla presenza di oltre 100 etnie. E mi sono reso conto che certi problemi vissuti in Ecuador sono oggi vissuti anche in Italia, anche se in un contesto molto diverso.

L’Ecuador è un Paese multiculturale composto da diverse etnie: indigeni, afro-ecuadoriani (discendenti degli schiavi africani) e meticci, che costituiscono la maggioranza. Il problema è che finora questo multiculturalismo ha funzionato quasi solo in un senso: per esempio, i neri sanno tutto della cultura e della spiritualità bianco-meticcio, perché è quello che imparano a scuola, in chiesa e in televisione. Ma “cosa sa la maggior parte degli ecuadoriani dell’anima e dello spirito del popolo nero?”, si chiedeva anni fa un sociologo afro-discendente.

La principale sfida pastorale, quindi, è quella di creare un’effettiva “convivenza” tra i diversi popoli che compongono la realtà multietnica del Paese, in cui ciascuno sia valorizzato nella sua bellezza umana e culturale. Su questo hanno riflettuto anche i Vescovi latinoamericani nel documento di Aparecida (2007), in cui, dopo aver denunciato le discriminazioni di cui sono ancora oggetto le minoranze etniche, scrivono: “Continua una mentalità di minor rispetto per gli indiani e gli afroamericani. Pertanto, la decolonizzazione delle menti e dei saperi e il rafforzamento degli spazi e delle relazioni interculturali sono condizioni indispensabili per l’affermazione della piena cittadinanza di questi popoli”. Credo che queste raccomandazioni valgano – mutatis mutandis – anche per la realtà italiana, e possono essere riassunte come segue:

a) Decolonizzare le nostre menti e, aggiungerei, decolonizzare i nostri cuori significa cambiare radicalmente il modo in cui vediamo questi “altri” popoli che vivono tra noi. Dobbiamo valorizzare il punto di vista di queste culture minoritarie e formare agenti pastorali che ci aiutino a farlo.

b) Dobbiamo creare spazi di “comprensione” multiculturale, dove tutti si sentano valorizzati, ascoltati e amati.

c) Attraverso questi spazi di ascolto reciproco, cresce la consapevolezza di avere un destino comune e si gettano le basi culturali per una cittadinanza effettiva e piena di questi popoli, e tutto ciò implica un impegno anche a livello politico-sociale.

Uno spazio per raccontare le nostre storie e ascoltarci a vicenda

Così, vedendo che anche a Padova era necessario affrontare questa sfida, mi sono chiesto: con quale piccolo segno, con quale piccolo gesto potremmo cercare di coinvolgere i giovani in questo processo?

L’esperienza in America Latina mi ha insegnato che un piccolo gesto è più bello e più efficace se lo elaboriamo all’interno di piccole comunità apostoliche e se ci lasciamo guidare dalle intuizioni che lo Spirito risveglia nel cuore delle persone che accompagniamo. Così si è formato un piccolo gruppo di sei giovani con cui abbiamo dato vita a un cineforum dal titolo Essere giovani in una società multiculturale. Tra i film proposti c’era Freedom writers, su una scuola in un quartiere multietnico di Los Angeles. Nella discussione che ha seguito la proiezione del film, Emmanuel, uno studente congolese, ha detto: “Nelle mense universitarie di Padova succede spesso quello che vedete nel film: siamo fisicamente presenti nella stessa stanza con persone di origini diverse. Però gli africani mangiano quasi sempre tra di loro, gli italiani anche: siamo vicini ma divisi da barriere invisibili. Insomma, non c’è uno spazio in cui condividere le nostre difficoltà e le nostre speranze in semplicità”. Negli interventi successivi è emersa questa idea: manca questo spazio? E allora possiamo crearlo: uno spazio in cui giovani di Paesi diversi possano parlarsi e scambiarsi esperienze liberamente. E così, tra tutti noi, è nata l’idea di creare Spazi giovanili e interculturali di autonarrazione.

Il gruppo di coordinamento ha descritto l’iniziativa come segue: “Si tratta di raccogliere la sfida dell’interculturalità e di creare spazi in cui i giovani di diversi Paesi possano raccontare le loro storie, condividere le loro esperienze, parlare delle loro vite, delle loro difficoltà e dei loro sogni. Siamo convinti che incontrarsi per ascoltarsi sia un primo passo verso la formazione di una società interculturale fraterna e giusta”. Nella nostra società c’è sempre meno tempo per ascoltarsi, ed è stato bello vedere l’interesse con cui tanti giovani hanno risposto all’iniziativa, che abbiamo poi realizzato in collaborazione con il Centro Universitario Diocesano di Padova.

Come ci vedono gli altri

Concretamente, ogni incontro inizia con una cena in cui ognuno condivide qualcosa. Emmanuel ha spiegato che nella sua cultura mangiare insieme crea una bella atmosfera di familiarità che apre al dialogo. Dopo il pasto, tre giovani provenienti da Paesi diversi raccontano la loro esperienza su un tema specifico e poi c’è una discussione tra tutti i giovani presenti. Tra i temi trattati, ricordo: “La vita quotidiana in una società multi-religiosa”, “I sogni dei giovani di fronte alla crisi”, “Le relazioni umane oggi”, “La disaffezione per l’impegno politico”, ecc.

La caratteristica principale dei nostri incontri è che non ci rivolgiamo ad “esperti”: lasciamo ad altri il compito di organizzare conferenze “scientifiche” su questi temi. Vogliamo sapere come questi temi vengono vissuti dalle persone comuni nella loro vita quotidiana.

Ovviamente è difficile riassumere in tre pagine la ricchezza di tutti questi incontri. Tra i vari relatori, ricordo in particolare tre africani. All’incontro sui “sogni dei giovani”, Mamadou, un giovane della Costa d’Avorio, ha detto: “Qui in Italia ci si lamenta, si sogna, ci si agita…. In Africa, invece, prima di tutto si accetta la realtà e si parte da questa realtà: c’è un gran casino fuori, c’è un problema? Io non mi faccio prendere dall’ansia, ma prendo la situazione con filosofia. In Italia c’è razzismo, è vero, ma non me ne preoccupo, perché in Italia ho incontrato anche tanta bontà. Avete molto tempo per chiedervi “cosa dobbiamo fare” e per elaborare i vostri sogni. Noi, invece, prima cominciamo a fare, e poi i sogni appaiono e crescono lungo la strada….”.

Wivine, una giovane congolese, durante l’incontro dedicato alle relazioni umane, ha detto: “Non ho soldi, ma ho tanta umanità, che mi aiuta ad affrontare le difficoltà. E sento che l’umanità africana è un grande dono e una grande risorsa, anche per il mondo occidentale di oggi. Perdonate la mia franchezza, ma credo che non ci sia niente di più bello al mondo di una famiglia africana. Mia nonna aveva 52 nipoti, e abbiamo fatto a gara per prenderci cura di lei negli ultimi anni della sua vita, quando non era autosufficiente: l’ho fatto per tre anni, ed è stata una gioia per me. Mi ha raccontato tante storie, storie del suo paese: è da lei che ho imparato i valori che ancora oggi mi fanno andare avanti e mi rendono la persona che sono. Qui in Italia, invece, vedo che gli anziani sono trascurati: una vacanza è più importante di una visita alla nonna. Ma se un anziano si sente scartato dalla famiglia negli ultimi anni della sua vita, questo dolore potrebbe cancellare anche il bel ricordo degli anni precedenti vissuti insieme.

Voi dite che ora in Italia c’è la crisi, e che purtroppo alcune persone si sono suicidate per questo motivo. Beh, io sono nato nella crisi, ma non ho mai pensato di suicidarmi, perché ho la mia famiglia che mi sostiene. E soprattutto ho fede: la fede in Dio mi sostiene sempre. Spesso in Africa si vive giorno per giorno, e si cerca di dare gioia alle persone che ci circondano. Con questo atteggiamento sono riuscito a superare la crisi in cui ho vissuto da quando sono nato e ad affrontare varie difficoltà qui in Italia. L’umanità africana mi ha aiutato a vivere e a superare la crisi. L’umanità africana può aiutare anche l’Europa a superare la crisi”.

In un altro incontro, in cui tre donne di religioni diverse hanno parlato della loro spiritualità, Naima, tunisina, ha confessato di soffrire molto quando vede i giovani, anche del suo Paese, per le strade a fumare e vendere droga. “Non posso stare con le mani in mano. So che Dio – Allah – ha altri progetti per questi giovani, non vuole che continuino a usare e spacciare droga per il resto della loro vita: ci sono altre potenzialità che Dio ha messo in loro, e io devo aiutarli a svilupparle. Così li avvicino e parlo con loro…”. Naima, madre di tre figli, ha accolto un altro giovane in casa sua, proprio perché vuole evitare che questo ragazzo si perda. In questo incontro è stato bello vedere che la misericordia di Dio opera in modo simile nei cuori di persone di religioni diverse.

Con le persone senza fissa dimora

Un’altra cosa che l’America Latina mi ha insegnato è che possiamo pianificare le iniziative in un certo modo, ma poi Dio – attraverso alcuni incontri o eventi imprevisti – ci induce a cambiare la nostra pianificazione. Infatti, pensavo che questa iniziativa fosse solo per i giovani, ma poi un ragazzo ha invitato alcuni senzatetto che avevamo incontrato nella nostra attività pastorale a partecipare a questi incontri. Così, gli incontri di auto-racconto sono diventati anche uno spazio di ascolto reciproco tra categorie di persone che di solito non si incontrano: italiani e stranieri, studenti universitari e adulti senza fissa dimora, ecc. Nella nostra società si sono create barriere tra diverse categorie di persone. La pace può esserci solo se riusciamo a rimuovere queste barriere (PT: rimuovere le barriere. FT: costruire ponti).

Piccoli grandi gesti

Questa iniziativa si è svolta in un contesto politico in cui alcuni partiti xenofobi si fanno paladini della “sicurezza” e vedono nei poveri e negli stranieri il principale ostacolo da combattere. Ma in una società multirazziale la vera sicurezza si costruisce attraverso l’incontro, l’ospitalità, il mangiare insieme e il dialogo, creando un clima di fiducia reciproca. Siamo chiamati a moltiplicare questi spazi e queste iniziative. Certo, sono piccoli gesti ma, come diceva il poeta, “di piccole cose si fanno grandi cose”.

Arising Africans

Uno degli ultimi incontri di auto-racconto è stato organizzato insieme al gruppo Arising Africans, un’associazione di giovani afro-italiani. Ecco le testimonianze di due di loro.

Angela: “Sono Angela, ho 21 anni, sono nata in un piccolo paese in provincia di Vicenza, i miei genitori sono nati in Ghana. Alcuni si stupiscono del fatto che quando mi presento non dico mai che sono italiana, né che vengo dal Ghana, ma solo che sono nata in Italia e che i miei genitori vengono dal Ghana. Il fatto è che non sono né l’uno né l’altro, o meglio, sono entrambi, sono afro-italiano. Non è stato facile per me riconoscermi come afro-italiana: la mia infanzia non è stata facile, sono stata vittima di razzismo, soprattutto psicologico, e per molti anni ho pensato che non sarei mai stata considerata italiana. È così che è cresciuto in me un risentimento nei confronti dei “bianchi”. Essendo vittima del razzismo, sono diventato anch’io razzista e le mie uniche armi per andare avanti sono state la violenza e l’auto-isolamento. In molti luoghi che percepivo come ostili mi isolavo e sentivo che non ero accettato lì, perché ero diverso, ero nero, e non avevo il diritto di stare con loro.

Dietro gli occhi di molti bianchi sentivo un disprezzo per me, e quindi li temevo e li odiavo, e credevo che non sarebbe stata possibile una vera amicizia tra un bianco e un nero. Pensavo che se qualcuno cercava di essere mio amico, lo faceva per due motivi: o per pietà o perché qualcuno – per esempio l’insegnante – glielo aveva suggerito. Quando sono arrivato a Padova, sono rimasto stupito. Ricordo che quando andai per la prima volta alla mensa universitaria, una ragazza bianca mi chiese se poteva sedersi accanto a me, e io rimasi stupito: non mi era mai capitato nulla del genere. E la mia sorpresa è aumentata quando ha iniziato a parlarmi da pari a pari. A voi sembrerà un episodio di poco conto, ma per me è stato uno dei tanti piccoli eventi che mi hanno reso quello che sono oggi: non sono più razzista, ma orgogliosamente afro-italiano.

All’Università ho conosciuto diverse persone. Ho riscoperto le mie radici africane. È importante conoscere le proprie radici, perché come si può andare avanti se non si sa chi si è?

Faccio parte del gruppo Arising Africans, perché credo nel concetto di consapevolezza. Avere un luogo dove poter parlare, vivere, essere compreso e accettato come africano è importante. Perché conoscere la propria cultura aiuta a camminare nel mondo. Alcuni pensano che siamo in un sistema “dentro-fuori”: se impari la cultura italiana devi disimparare la cultura africana; invece le culture dovrebbero seguire la logica del “dentro-in”: dovremmo creare un’inter-cultura. Essere afro-italiani significa essere sia africani che italiani. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, ma ora sono orgogliosa della mia afro-italianità”.

Ada: “Mi chiamo Ada, sono nigeriana, afro-italiana e sono una sognatrice. Arising Africans è un progetto che nasce nel maggio 2015 con l’intento di riunire giovani di origine africana/afro-italiani e realizzare insieme alcune azioni.

La nostra azione è rivolta sia agli “stranieri” che agli italiani. Da un lato, ci rivolgiamo ai giovani africani e afro-discendenti che vivono in Italia con un’azione di sensibilizzazione e di empowerment: vogliamo che siano consapevoli dei loro diritti e che capiscano che rimanere in silenzio di fronte alle ingiustizie aumenta il razzismo.

D’altra parte, vogliamo promuovere un cambiamento nel modo in cui la società italiana tratta le persone di origine africana, decostruire gli stereotipi sugli africani e cambiare l’immagine dell’Africa ritratta dai media: un’immagine legata alla miseria, alla guerra, alla fame e allo sbarco di migranti che implorano di essere salvati. Quello che non mostrano è che noi africani siamo molto di più e non si rendono conto di quanta diversità culturale ci sia in un continente così grande. Arising Africans ha quindi aderito alla campagna REDANI contro l’uso abusivo di immagini di bambini neri, mostrati per raccogliere denaro.

Per combattere questi stereotipi, sulla nostra pagina Facebook vogliamo educare al valore della cultura africana attraverso vari temi: figure storiche, relazioni internazionali, musica, ecc. Vogliamo unirci ad altri gruppi di studenti per avere un impatto maggiore. Siamo giovani, pieni di energia e raggiungeremo risultati importanti.

Dopo questo incontro, abbiamo concordato con Arising Africans di organizzare una festa dell’afro-italianità nella nostra casa di Padova, e attraverso questa festa, ha detto Ada, “vogliamo approfondire il concetto di afro-italianità e parlare del ‘risveglio africano’ in Italia. Non è nostra intenzione presentare solo il nostro punto di vista, ma vogliamo dare a tutti la possibilità di esprimere la propria opinione sull’argomento, e creare un evento che miri all’intrattenimento in chiave educativa”. Molte associazioni della città sono state coinvolte nell’organizzazione di questo festival afro-italiano.

Mentre organizzavamo questi incontri interculturali, l’allora sindaco di Padova, Massimo Bitonci, del partito di destra della Lega, emanò un decreto che vietava a tutte le persone provenienti dall’Africa di soggiornare nel comune di Padova, a meno che non presentassero un certificato di buona salute. Il sindaco Bitonci ha anche abolito l’organo del “Consiglio degli stranieri”. Questo consiglio era composto da rappresentanti eletti dagli stranieri residenti a Padova con permesso di soggiorno. Era un modo per coinvolgere questa parte importante della popolazione nella vita della città. Quando Bitonci ha abolito questo Consiglio, don Albino Bizzotto e io abbiamo scritto una lettera al sindaco chiedendo la ricostituzione del Consiglio e proponendo l’apertura di spazi di incontro interculturale in vari settori della città.

Lettera aperta all’Amministrazione comunale di Padova

“Nei documenti del suo magistero, Papa Francesco esprime spesso il sogno di costruire, tutti insieme, una città bella. È un sogno che contrasta con un altro modello di città che il ‘mondo’ ci presenta. Infatti, da un lato, ci sono “città che offrono innumerevoli piaceri a una minoranza felice, ma poi negano una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli e sorelle … Quanto fa male sentire che si vogliono emarginare o addirittura distruggere gli insediamenti dei poveri! Le immagini degli sgomberi forzati sono crudeli, e sono immagini molto simili a quelle della guerra!”.

D’altra parte, ci sono “belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (LS 152). Il Papa sogna un’architettura della bellezza, una città bella che riconosca l’altro, favorendo la comunione e le relazioni fraterne tra persone diverse.

Dall’altra parte, però, c’è la visione di una città che devasta gli insediamenti poveri, creando un clima malsano di odio e di guerra. Quale modello di città dobbiamo scegliere noi cristiani?

Francesco non ha dubbi al riguardo. Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Migranti scrive: “I migranti e i rifugiati ci sfidano: come possiamo fare in modo che l’integrazione diventi arricchimento reciproco, apra percorsi positivi per le comunità ed eviti il rischio di discriminazione, razzismo o xenofobia? La risposta del Vangelo è la misericordia”, che ci esorta a “coltivare la cultura dell’incontro, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno”. Certo, andare incontro all’altro è un lavoro duro, richiede lo sforzo di superare i propri pregiudizi e di pensare ad alternative creative, ma, come dice il Papa, è l’unico modo per costruire una società giusta.

Per noi cristiani non c’è alternativa all’incontro, almeno non c’è alternativa evangelica; se rinunciamo allo sforzo dell’incontro, non resta che lo scontro, l’odio e la violenza.

Nella Domenica della Misericordia, il 3 aprile, a chi propone di “buttare fuori questa gente”, il Papa ha ricordato che dobbiamo agire con tenerezza, perché rifiutare i poveri e gli stranieri “non è da Gesù”. Secondo il Papa, la tenerezza – “una parola quasi dimenticata nel mondo di oggi” – e la fraternità hanno anche un valore politico: “Il terrorismo si combatte con la fraternità”, ha detto durante la messa del Giovedì Santo.

Per questo, proprio per sostenere la cultura dell’incontro tanto sottolineata da Francesco e per promuovere spazi che favoriscano il riconoscimento dell’altro, chiediamo al Comune di Padova, in questo Giubileo della Misericordia, di riaprire il Consiglio degli stranieri, che era uno spazio ufficiale di dialogo con i cittadini stranieri residenti in città.

Pensiamo che il Consiglio degli stranieri sia un bene che non appartiene a una parte politica, ma è un segno di speranza per tutti i cittadini, soprattutto per i giovani, che sperano in un futuro di convivenza pacifica tra diversi popoli. Quando ci rivolgiamo agli altri, dice Francesco, ci arricchiamo a vicenda. E siamo convinti che se nella nostra città creiamo spazi in cui tutti (italiani e stranieri, senza fissa dimora e immigrati) possano dialogare e ascoltarsi, insieme – intrecciando i sogni di tutti i popoli presenti a Padova – troveremo modi e forme di convivenza che al momento, stando ognuno per conto proprio, non possiamo nemmeno immaginare” (20 aprile 2016).

Il sindaco non ha mai risposto a questa lettera, che è stata comunque pubblicata sulla rivista diocesana.

Questo impegno a sviluppare e vivere una spiritualità dell’incontro interculturale rimane una delle priorità missionarie nella costruzione di una società fraterna e nonviolenta.

Fr Alberto Degan MCCJ

1Cit. in Antonio Papisca, Forza Onu, en Mosaico di pace, settembre 2001, 22.

2Ibid. 23

3Cf. sito di Beati i costruttori di pace

4Bernard Häring, La noviolencia: una forma de cultura y esperanza (Herder, Barcelona, 1989), 203.

Previous articleVangelo e politica
Next articleLO STILE DI MISSIONE NEL XIX CAPITOLO GENERALE