Alcuni commenti sulla riflessione “Missione come Servizio: i Ministeri nell’Istituto Comboniano” (Fr Manuel Augusto)

È sempre bello e arricchente leggere contributi e riflessioni sulle questioni della Chiesa e dell’Istituto Comboniano. In particolare, sulla ministerialità. È moda o è qualcosa di più profondo? 

Non spenderei troppo tempo né energie nel determinare l’origine o il “vero” significato della parola ministerialità. Tra l’altro, cercando in bibliografia degli anni 80, sarebbe difficile trovarne traccia… Ministerialità ha la stessa “funzione” di missionarietà e sinadalità. Indica una caratteristica della Chiesa che si ritiene fondamentale, fondante della sua natura. Se la Chiesa è per sua natura missionaria e sinodale (in cammino), allora la missionarietà e la sinodalità fanno parte della sua natura più vera. Se la Chiesa in toto, e ogni discepola di Cristo individualmente, sono ministri, servitori, allora la ministerialità diventa una caratteristica irrinunciabile della Chiesa.

Giustamente, la riflessione si snoda su un excursus storico sia nella storia della Chiesa, con particolare attenzione all’evento del Vaticano II, sia nella storia della Famiglia Comboniana. Ma, mi chiedo, dal Comboni (XIX secolo) al Vaticano II (XX secolo) ad oggi (XIX secolo), non è cambiato nulla nella riflessione teologica, ecclesiologica, e missionaria? La nostra esperienza missionaria e la nostra riflessione riescono a formulare le nuove sfide positive che vengono dal mondo (totalmente cambiato rispetto ai tempi sia del Comboni che del Vaticano II) e a proporre una nuova riflessione teologica ed ecclesiale? Mettere l’accento sulla natura ministeriale della Chiesa può essere uno di questi tentativi.

La natura ministeriale della Chiesa va in direzione esattamente opposta al clericalismo, cioè al mettere al centro la figura-funzione del ministro ordinato come padre-padrone della missione evangelizzatrice della Chiesa e detentore di ogni decisione finale riguardo a qualunque azione ecclesiale. Leggendo la riflessione e l’excursus storico, non posso non notare come storicamente, nella Chiesa, il ruolo ministeriale dei laici sia cresciuto più come una concessione dettata da necessità storiche che come un vero riconoscimento di pari dignità all’interno della comunità ecclesiale. E l’invadenza di campo di cui si parla (i ministri ordinato che si credono pronti e adatti per ogni tipo di ministero), e che anch’io rifiuto, ne è semplicemente la conferma: “finché il prete può farcela da solo…”.

Non è vero, secondo la mia opinione personale, che non ci sono laici preparati o desiderosi di impegnarsi nella società (attenzione, qui, a non privilegiare una lettura eurocentrica della situazione ecclesiale). Ma finora sono stati i vescovi (clero) che hanno sempre cercato di orientare, se non addirittura determinare, la presenza/azione del laicato nella società. Il rapporto clero-laicato si fonda, purtroppo, su una grande mancanza di fiducia del primo nel secondo, tant’è che il clero si sente sempre in diritto di intervenire e dettare linee guida. Congar diceva che il Vaticano II ha rappresentato un grande cambiamento nell’atteggiamento della Chiesa verso il mondo: prima, la Cristianità cercava di controllare il mondo, trattandolo e mantenendolo di fatto come un bambino. Adesso, non solo la Chiesa è nel mondo e vi annuncia il Vangelo, ma “la missione della Chiesa comporta un secondo articolo, il servizio al mondo così com’è, finché, nel regno escatologico, la Chiesa e il mondo saranno uno” (Congar, citato in Faggioli, 2015, A Council for the Global Church: Receiving Vatican II in history”, p. 133).

Quindi, quando parliamo di ministerialità, non creiamo nessuna parola nuova né cambiamo la natura della Chiesa. Ci accorgiamo invece (lo spero) che chi è cambiato radicalmente è il mondo che diciamo di voler servire. E se siamo servi, siamo al servizio del mondo così com’è. Non si è mai visto un servo che detta l’agenda al maestro… Ci sono tanti modi, ancora oggi, anche nella nostra attività missionaria, per trattare e tenere il mondo come un bambino. Diciamo di essere al servizio del mondo, degli altri, ma siamo sempre noi a dettare il percorso e a stabilire i passi da compiere. Ciò che è cambiato nel discorso della ministerialità della Chiesa è che il mondo non è più sottomesso e non starà più ad aspettare la conversione della Chiesa clericale. Si sposterà verso altri luoghi, ascolterà altre voci, seguirà altri modelli (basta guardare al mondo giovanile…). È la Chiesa che deve cambiare strategia, non il mondo.

In un mondo che grida sempre più il diritto all’uguaglianza, alla pari dignità, all’inclusione, al camminare insieme (tutti valori esplicitamente e volutamente contraddetti e contrastati dalla cultura dominante di cui anche la Chiesa beneficia), allora dobbiamo reinventare strategie pastorali e ricreare luoghi concreti dove questi valori siano visibili, vivibili, e esportabili. E questi luoghi altro non sono che le comunità dei discepoli di Cristo. In poche parole, la riflessione sulla ministerialità della Chiesa deve cambiare la Chiesa, non il mondo.

Stefano Giudici

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Caro Daniele e fratelli e sorelle tutti, pace e forza.

Solo adesso ho la possibilità di reagire “a braccio” alla richiesta di Daniele sul testo: “Missione come servizio”.

Ringrazio quanto è espresso in questo testo, aiuta a mettere  fuoco aspetti importanti della ministerialità; ne aggiungo altri, soprattutto di ermeneutica. Il cammino, la condivisione e l’approfondimento sulla ministerialità devono continuare, senza però farli diventare una logomachia sterile.

A voce e in presenza il resto.

Grazie per la vostra comprensione.

Capisco la sorpresa di p. Daniele, a riguardo del testo “Missione come servizio” e il mancato coinvolgimento della commissione; tuttavia, senza togliere la libertà di espressione a nessuno, dico solamente che la sinodalità è un processo che richiede molta pazienza e tempo, che  non tutti riescono a comprendere e adottare; in alcuni può prevalere lo zelo inquisitore e la smania di “mettere ordine”, rinunciando, ahimè, a mescolarsi con gli altri e con le altre in una vera mistica dell’incontro, dove non c’è contrapposizione, né autoreferenzialità, ma ricerca, fatta insieme, nel discernimento dello Spirito Santo.

 Bene ammonisce Papa Francesco, bisogna evitare “il godimento spurio in un autocompiacimento egocentrico” (EG n. 95). 

 Difatti, continua Papa Francesco: “In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele” (EG n. 96).

Il cammino sinodale che stiamo percorrendo suscita stupore, gioia, visione e comunione missionaria; lo stiamo sperimentando man mano che il cammino avanza, e noi ne siamo testimoni.

Ora la ministerialità non è solo una questione semantica, ma piuttosto uno stile di vita, di ermeneutica, di approccio e di prospettiva.

Per comprenderla è necessario partire dalla ecclesiologia del Vaticano secondo che enfatizza l’immagine di Chiesa come popolo di Dio; declinata nei vari sinodi continentali che si sono susseguiti nell’intento di contestualizzare l’evangelizzazione; per esempio  in Africa come famiglia di Dio, in Asia come cammino di armonia, attraverso il dialogo interreligioso e interculturale, in America Latina come opzione preferenziale per i poveri e comunità ecclesiali di base: un popolo  dai molti volti, difatti, “In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni” (EG. n. 120).

Per l’approfondimento suggerisco quanto già è stato espresso nel testo pubblicato nel 2012: “Essere missione oggi. Verso un nuovo immaginario missionario” (a cura di F. Zolli, Emi); il quaderno di Limone, aprile 2013, dal titolo “La missione comboniana in Europa: quali ministeri?”, dove si approfondisce la ministerialità dal punto di vista esperienziale (vari autori), la dimensione biblica (L. Moscatelli), la dimensione Teologica e pastorale (L. Meddi), la dimensione carismatica (Joaquim Valente da Cruz): la dimensione pastorale (la famiglia comboniana).

Tutto per sottolineare che la ministerialità non è una moda di oggi; ma un modo di essere missionari e che viene vissuto e proposto da molto tempo.

La ministerialità sociale tende a promuovere la trasformazione della realtà, perché appaia sempre più chiaramente il Regno e il progetto di Dio, inaugurato da Gesù. Ora, in questo testo che ci viene condiviso, mancano i soggetti principali: i POVERI.

A questo proposito papa Francesco, parlando dell’inclusione sociale dei poveri dice: “E’ un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzare. La riflessione della Chiesa su questi testi non dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con coraggio e fervore. Perché complicare ciò che è così semplice? Gli apparati concettuali esistono per favorire il contatto con la realtà che si vuole spiegare e non per allontanarci da essa”. (EG n. 194).

La ministerialità sociale, grazie al suo approccio pastorale e la condivisione di vita con i poveri, nelle varie periferie esistenziali, come è espresso nelle pubblicazione “Noi siamo missione, Testimoni di ministerialità sociale nella famiglia comboniana” e la mappatura di oltre 200 esperienze di vita,  animano e sostengono la chiesa nella sua crescita identitaria missionaria, attenta a quello che succede “fuori” dal suo recinto, e pronta a lasciarsi interrogare e mettere in discussione, solo così si apprezza quello che dice papa Francesco nell’immagine di “chiesa in uscita” : ” la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. (EG n. 24).

Suggerisco inoltre di riprendere in mano quanto è espresso nel quaderno di Limone n° 4, aprile 2010: “La missione oggi. Provocazioni per la spiritualità missionaria e comboniana”, espressa dai vari membri della famiglia comboniana; incluso i responsabili generali di quel periodo della famiglia comboniana

Comunque, in questo cammino sinodale, c’è posto per tutti; perché ognuno porta e sottolinea alcuni aspetti dell’Unica Verità che è Gesù Cristo e il suo Vangelo, senza cedere tuttavia alla “mondanità spirituale” (EG nn.93-101).

Mettendosi in ascolto gli uni degli altri, e soprattutto guardandosi in faccia e sporcandosi insieme le mani nella prassi evangelizzatrice, continueremo a fare cose grandi, come quelle che i nostri predecessori ci hanno lasciato in eredità.

Scusate la lunghezza.

A presto

Fernando Zolli   

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