Sono stato chiamato a un servizio missionario, come Fratello Comboniano in Sud Sudan, occupandomi di promozione della salute, prima come membro del corpo insegnante in una scuola per ostetrici ed infermieri e, negli ultimi quattro anni, mi è stata affidata la responsabilità di essere il direttore medico e amministratore ad interim del Mary Immaculate Hospital, situato nella Regione dei Laghi, a 70 km dal capoluogo, Rumbek.
Con una popolazione di circa 12 milioni di persone e un indice di sviluppo umano pari allo 0,388, il Sud Sudan si colloca al 187° posto nella scala delle Nazioni Unite che misura lo sviluppo globale. Il paese più giovane del planisfero, nasce il 9 luglio 2011, dopo decenni di guerra civile per ottenere l’indipendenza dal governo del Sudan con sede a Khartoum. Mentre sono stato contento di arrivare in Sud Sudan, proprio in un tempo di grande entusiasmo per l’indipendenza ricevuta, ho potuto constatare che anni di guerra hanno segnato la popolazione… nel bene e nel male. Nel bene, paradossalmente, perché in generale si può dire che il popolo del Sud Sudan è un popolo resiliente, capace di rialzarsi a fronte delle numerose e pesanti batoste ricevute. Nel male perché, anche se l’indipendenza ha portato gioia e speranza nel futuro, nella prospettiva di autodeterminarsi, la scomparsa del “nemico comune”, identificato nel regime di Khartoum, ha fatto riaffiorare vecchie ostilità, stressando le linee di identità tribale (e clanica) e la transizione della classe militare a dirigenza politica non si è, di fatto, realizzata. Il Sud Sudan è nato come paese, fortemente centrato intorno all’idea di aver raggiunto la propria indipendenza, ma ancora fortemente diviso in sé stesso e dove la class politica al potere ha intrapreso la strada della cleptocrazia. Qui, più acutamente che in altri paesi africani, il concetto di leadership si è spesso identificato con la dominazione di un “capo forte” intorno a cui si concentrano una serie di vassalli che sperano nella benevolenza di questo leader piuttosto che adoperarsi per il bene comune di… tutti gli altri! La mancanza di sviluppo delle infrastrutture e la distruzione di quelle esistenti hanno impedito lo sviluppo e l’arricchimento della regione e lo hanno fatto diventare un luogo di dolore e sofferenza. A causa delle varie guerre civili e degli impatti ad esse connessi, più di 2 milioni di persone sono morte e più di 4 milioni sono divenuti rifugiati. L’economia del Sudan del Sud è una delle più deboli del mondo. Carente di infrastrutture, la regione ha anche il più alto tasso di mortalità materna e analfabetismo femminile.
In questo contesto, leggere Fratelli Tutti (FT), diventa molto esigente: parlare di fraternità universale sincera, in un paese diviso e ferito è una priorità. Nel capitolo terzo di FT, dal titolo “Pensare e generare un mondo aperto”, papa Francesco riflette sul significato di “umanità” che ci invita a trascendere noi stessi nell’incontro con gli altri. UMANITÀ, dice Francesco, significa unità e condivisione di un unico destino. Tutto questo si fonda sulla inalienabile DIGNITÀ umana che tutti condividiamo e da cui promanano tutti i diritti umani, sociali e dei popoli. Lo sviluppo umano integrale è una vocazione che si fonda sulla dignità umana. Inoltre, umanità significa anche SOLIDARIETÀ e PARTECIPAZIONE. Cioè, da un lato la benevolenza, la corresponsabilità allo sviluppo di tutti; dall’altro la soggettività delle persone e dei popoli, chiamati ad essere protagonisti del loro sviluppo integrale.
Nel mio lavoro ho potuto condividere la gioia e le lotte di molte persone. Innanzitutto quelle del nostro personale medico che collabora a questa grande missione di essere vicino alle persone nei loro momenti più vulnerabili: le persone che sono malate, che lottano per la propria vita o che stanno per portare una nuova vita nel mondo. Queste sono le persone che siamo chiamati a servire nel Mary Immaculate Hospital, che ha cercato di rispondere prendendosi cura dell’umanità ferita che incontrava, riconoscendone la dignità profonda. Il personale che ha lavorato con me è un ottimo esempio di dedizione e servizio, spesso riuscendo ad andare oltre l’appartenenza ad un certo gruppo etnico per venire incontro ai bisogni del debole, facendosi samaritani dei loro fratelli e sorelle prostrati, sulla strada.