P. Giuseppe Caramazza mccj

Negli ultimi decenni, una nuova cultura si è imposta nel mondo. Grazie anche alla globalizzazione e ad un certo appiattimento culturale succube delle tendenze statunitensi, il linguaggio si sta modificando in tutte le lingue. Questa metamorfosi riflette un’attenzione – a volte morbosa – verso l’equilibrio di genere, il linguaggio inclusivo, l’evitare espressioni che potrebbero essere offensive verso una o l’altra minoranza. Questo fenomeno ha senz’altro degli aspetti positivi. La lingua è lo strumento più potente della cultura umana. Se una cosa viene detta e ridetta, diventa la norma. Ecco che la sensibilità verso il genere femminile, i disabili, le varie fragilità umane, viene potenziata quando il linguaggio muta. La scelta delle parole ed espressioni sostiene la trasformazione della modalità usata per valutare una certa realtà. Un linguaggio inclusivo favorisce la nascita di una cultura inclusiva.

È quindi interessante notare come l’inclusività sembri avere dei limiti ben precisi. Lo sanno bene i più poveri, gli esclusi dalla società, quelli che non hanno le carte in regola per apparire nelle liste delle organizzazioni non governative. Per loro non ci sono portavoce sufficientemente forti da far conoscere la loro realtà. Quindi, da una parte si avvoca l’inclusività, ma dall’altra non si approntano quei cambiamenti strutturali che permettano ai veri diseredati della terra di avere pari diritti.

Papa Francesco nota che la nostra comunicazione ha perso di qualità. Possediamo i mezzi tecnici per parlare con chiunque al mondo, raggiungere gli angoli più remoti, lanciare messaggi che possono essere letti ovunque in tempo reale però … non sembra che si crei un vero dialogo. L’appiattimento del linguaggio non aiuta a dare forza al nostro parlare. Stiamo vivendo una omogeneizzazione del linguaggio. Nel campo dei diritti, le forze sociali e finanziarie si sono presto adattate. È di moda parlare di responsabilità sociale, allora lo fanno tutti, anche quelle forze che alla società non offrono alcun servizio.

Il terzo capitolo di Fratelli tutti questo lo afferma con forza. Francesco nomina dei valori fondamentali che dovrebbero regolare il rapporto con le persone. Egli nomina anche delle risposte urgenti alle crisi di oggi.

Leggendo tra le righe, pare di trovarci di fronte ad una chiamata per un giubileo straordinario: non uno fatto di pellegrinaggi a basiliche e luoghi santi, ma uno pieno di azioni sociali di liberazione. Il giubileo biblico è il frutto di una idea rivoluzionaria. Con una ciclicità simbolica legata al numero sette (perfezione), ecco che al termine di un periodo – ogni cinquantesimo anno – tutte le risorse di Israele dovevano tornare in possesso dei proprietari originali. Ponendo che la divisione delle risorse del paese fosse stata fatta con giustizia in partenza, questa ciclicità avrebbe assicurato che ogni nuova generazione avrebbe potuto contare su risorse di simile valore, eliminando così una delle fonti della disuguaglianza.

La storia ci insegna che il giubileo non venne mai celebrato in Israele. La validità dell’idea rimane. Oggi più che mai vi è la necessità di pensare a modalità che permettano il giusto accesso delle risorse a tutti, in modo equo. L’esperienza degli ultimi decenni ci dice che il divario tra i popoli è troppo largo. Chi parte svantaggiato non riesce mai a recuperare il terreno, ed è condannato ad una povertà e marginalità che non rispecchiano la realtà di lavoro, impegno, e valori. Vi sia quindi una sorta di giubileo che permetta a tutti di avere veramente un equo accesso alle risorse.

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