Una riflessione teologica sulla COP26 di Glasgow

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Fr Alberto Parise mccj

La COP26 è la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta a Glasgow dal 31 ottobre al 13 novembre scorso. Ho avuto la possibilità di partecipare come osservatore inviato da VIVAT International, una ONG accreditata alle Nazioni Unite di cui i Missionari Comboniani sono membri, assieme ad altre 11 Congregazioni missionarie. È stata un’esperienza molto forte, da cui ho imparato molto, assieme a p. Liam Dunne SVD e sr. Ida Haurand SSpS con cui abbiamo costituito l’equipe di VIVAT. Il senso di gratitudine per questa opportunità mi invita a condividere una riflessione teologica, cioè una riflessione sull’esperienza alla luce della fede che porta ad un impegno concreto, a dare una risposta al problema, seguendo gli inviti dello Spirito.

IN ASCOLTO DELL’ESPERIENZA

Attese e contraddizioni

La COP26 è stata caratterizzata da un clima di grandi attese, sia da parte degli Stati (“parti” firmatarie degli accordi climatici di Rio, Kyoto e Parigi), che della società civile. Attese dovute alla necessità di agire immediatamente e con radicalità per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5°C rispetto alla temperatura media di epoca pre-industriale. Diverse situazioni degli ultimi due anni hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgenza di intervenire efficacemente: anzitutto le sempre più frequenti devastazioni dovute a fenomeni climatici estremi, che colpiscono ogni parte del mondo, come i picchi di temperature mai visti prima, siccità e incendi devastanti, scioglimento dei ghiacci e del permafrost, alluvioni catastrofiche e i piccoli stati insulari sempre più minacciati dall’erosione con l’innalzamento del livello del mare. C’è dunque una profonda consapevolezza nell’opinione pubblica ed una pressione sulla classe politica perché si agisca subito ed in modo radicale per contenere la crisi climatica.

Poi, la relazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), la massima autorità scientifica mondiale sui cambiamenti climatici, nominata dall’ONU, che lo scorso luglio ha dimostrato scientificamente che il rapido riscaldamento globale che sta avvenendo non ha precedenti nella storia del pianeta ed è causato dalle attività umane. Inoltre, ha fatto una stima di quanto vicini siamo a raggiungere il punto di non ritorno, cioè la soglia oltre la quale i cambiamenti climatici saranno irreversibili e si intensificheranno ulteriormente, con conseguenze devastanti. Per evitare tutto questo, ha indicato degli obiettivi minimi: ridurre le emissioni di gas ad effetto serra del 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030; e ridurre le emissioni fino ad un saldo zero entro il 2050.

Infine, una grande pressione per un cambiamento radicale viene dai giovani, di quasi 200 paesi, che chiedono un approccio diverso alla risoluzione della crisi climatica: inclusivo, che tenga conto della giustizia climatica e intergenerazionale, e autenticamente sostenibile.

Fin dall’inizio, nella conferenza sono emerse le voci di coloro che più sono colpiti dalla crisi climatica. Per esempio, i rappresentanti dei piccoli Stati insulari del Pacifico, dell’oceano Indiano e Atlantico, che hanno portato il loro vissuto e lanciato un monito: “la differenza tra 1,5°C e 2 °C di aumento di temperatura globale è una sentenza di morte” per loro. Infatti, Stati come le Maldive o le Isole Marshall scompariranno dalla faccia della Terra se l’aumento di temperatura arrivasse a 2°C, per l’innalzamento del livello degli oceani. I rappresentanti dei popoli indigeni hanno portato una testimonianza della distruzione delle foreste ed ecosistemi naturali, e perorato la causa di soluzioni naturali alla crisi climatica. Hanno sottolineato l’importanza di una spiritualità ecologica e del bisogno di un diverso modello di sviluppo. Dalle comunità locali sono venute narrazioni toccanti, che hanno messo in luce le contraddizioni degli interventi per la transizione energetica. Un tipico esempio viene dal Kenya, dove è stato realizzato il più grande parco eolico dell’Africa sub-sahariana, ma a spese dei diritti umani delle comunità Turkana che sono state sfollate; o il fatto che il fabbisogno energetico del paese sia già soddisfatto al 90% da energie rinnovabili, ma il piano di sviluppo del paese punta sulle trivellazioni di petrolio ed un oleodotto che attraversa il paese per esportare greggio e prodotto raffinato.

La Presidenza aveva impostato i lavori per raggiungere quattro obiettivi generali:

1. Azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C

Ad ogni Paese è stato chiesto di presentare obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni entro il 2030 allineati con il raggiungimento di un sistema a zero emissioni nette entro la metà del secolo.

In particolare, si proponeva di:

= accelerare il processo di fuoriuscita dal carbone

= ridurre la deforestazione

= accelerare la transizione verso i veicoli elettrici

= incoraggiare gli investimenti nelle rinnovabili

2. Adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali

Il clima sta già cambiando e continuerà a cambiare provocando effetti devastanti anche riducendo le emissioni. La COP si riprometteva di incoraggiare i Paesi colpiti dai cambiamenti climatici e metterli in condizioni di:

= proteggere e ripristinare gli ecosistemi

= costruire difese, sistemi di allerta, infrastrutture e agricolture più resilienti per contrastare la perdita di abitazioni, mezzi di sussistenza e persino di vite umane

3. Mobilitare i finanziamenti

Per raggiungere i nostri primi due obiettivi, i Paesi sviluppati dovevano mantenere la loro promessa di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima entro il 2020.

Le istituzioni finanziarie internazionali devono fare la loro parte e tutti noi dobbiamo lavorare per liberare le migliaia di miliardi che la finanza pubblica e quella privata dovranno impiegare per raggiungere zero emissioni nette globali.

4. Collaborare

= finalizzare il “Libro delle Regole” di Parigi (le regole dettagliate necessarie per rendere pienamente operativo l’Accordo di Parigi)

= accelerare le attività volte ad affrontare la crisi climatica rafforzando la collaborazione tra i governi, le imprese e la società civile

Tuttavia, abbiamo sperimentato delle contraddizioni nello stesso Campus dove ha avuto luogo la COP26. Doveva essere la COP della massima inclusione, con circa 40.000 partecipanti accreditati. Ma poi, per le restrizioni dovute alla pandemia, non si poteva accedere alle sale dove si svolgevano i negoziati, facendo così lievitare un problema di trasparenza e di partecipazione. Tutto questo ha generato un forte senso di esclusione e di frustrazione. E se è vero che comunque c’erano molti eventi organizzati suvarie tematiche per promuovere idee, far conoscere esperienze e buone pratiche, e lanciare nuove iniziative ed accordi, l’esperienza è stata soprattutto quella di mondi paralleli che difficilmente si incontrano. Soprattutto, si è vista una grande distanza tra i vari settori della società civile da una parte, e quelli dei governi e degli affari dall’altra. Inoltre, molti degli eventi hanno visto il loro messaggio rimanere all’interno dei circoli che li hanno organizzati. Ciò è dovuto in parte al grande numero di eventi in programma, in parte alla ricerca di visibilità che ha spinto molti attori a proporre eventi propri più che multilaterali, e infine le restrizioni dovute alla pandemia hanno fatto il resto.

Le dinamiche di partecipazione

Le dinamiche di partecipazione alla COP sono basate sul multilateralismo: sia le Parti che le organizzazioni della società civile sono chiamate ad operare attraverso raggruppamenti, per ovvie ragioni (tempo, elaborazione di posizioni comuni, praticabilità dei negoziati).

Soprattutto a Glasgow, dove c’era una rigida limitazione di accesso alle sale a causa delle restrizioni di COVID, l’appartenenza a una delle nove circoscrizioni di ONG era essenziale, perché a queste venivano, per esempio, concessi 2 o 3 biglietti per l’accesso ai negoziati. Poi, nelle riunioni quotidiane delle circoscrizioni, si supponeva che ci fosse la possibilità di informare si come procedevano i lavori e proporre suggerimenti. Purtroppo questo non ha funzionato per la nostra equipe di VIVAT. Non ci è stato possibile accedere ai lavori del gruppo di ONG ambientaliste e così, soprattutto la prima settimana, è stato molto difficile capire cosa stesse accadendo.

A Glasgow, siamo riusciti a prendere contatto con il gruppo delle organizzazioni ispirate dalla fede, che non è ancora una circoscrizione in sé, ma un gruppo inter-religioso comunque riconosciuto dalla Presidenza. Il gruppo conduce i cosiddetti dialoghi di Talanoa, che articolano una prospettiva interreligiosa sui temi della COP. Nel suo documento finale presentato alla Presidenza, il gruppo ha chiesto di essere ulteriormente riconosciuto come circoscrizione della società civile.

C’è stato un contatto tra varie organizzazioni di matrice cattolica, ma fondamentalmente queste sono andate prevalentemente ciascuna per la propria strada. Ci è mancata un’iniziativa di convocazione, per avere la possibilità di condividere esperienze, preoccupazioni, intuizioni e interessi comuni. Inoltre, abbiamo notato che oltre a VIVAT nessun’altra organizzazione cattolica si è collegata al gruppo del dialogo sulla crisi climatica dei gruppi ispirati dalla fede.

Lo scontro tra Nord e Sud

La distanza, ad ogni modo, che ha portato allo scontro più evidente è stata quella tra Nord e Sud globali, accomunati dal bisogno comune di superare la crisi climatica, ma divisa da priorità diverse.

I paesi del Nord globale vedono la riduzione delle emissioni come la prima priorità e questo fa sì che gli investimenti per la transizione alle energie rinnovabili beneficino della grande maggioranza dei fondi. Infatti, i paesi del Nord spingono per investimenti nelle energie rinnovabili, per eliminare il carbone e i sussidi ai combustibili fossili, per la protezione delle foreste e la riforestazione, per la transizione ai veicoli elettrici ed al trasporto di merci a zero emissioni; come anche per creare le condizioni per gli investimenti privati al fine di mobilitare i finanziamenti della transizione verde. Sono consapevoli che è necessario intervenire e vedono negli investimenti per la transizione ecologica un’opportunità di crescita. Si punta sulla tecnologia per risolvere problemi ambientali, creare nuovi posti di lavoro cosiddetti “verdi”, aprire nuovi mercati e aumentare i profitti. E per far questo bisogna investire in ricerca per rendere le tecnologie più efficienti e viabili commercialmente, per creare gli incentivi al settore privato, oltre a politiche e infrastrutture di supporto abilitanti.

I paesi del Sud, invece, hanno come priorità gli investimenti per l’adattamento e la resilienza delle loro economie ai cambiamenti climatici, nonché la questione della compensazione per le perdite a questi dovuti. Per esempio, l’Africa rischia di perdere il 15% del suo PIL di qui al 2030 per la crisi climatica, facendo cadere 100 milioni di africani al di sotto della soglia di povertà.

Gli Stati del Sud geopolitico si aspettano molto di più dai paesi del Nord, che sono storicamente i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra. La riduzione delle emissioni dovrebbe avvenire soprattutto in quei paesi: anzitutto perché hanno la maggiore responsabilità per le emissioni; poi anche per garantire il diritto allo “sviluppo” nei paesi del Sud, che hanno bisogno dell’energia di cui dispongono per crescere. Questa è una posizione che l’India non ha mancato di rimarcare continuamente, fino quasi a far naufragare l’accordo finale che proponeva l’eliminazione del carbone, rivendicando la sua quota di “carbon budget”. È vero, infatti, che l’India è oggi tra i più grandi emettitori in termini assoluti; ma è anche vero che se guardiamo alla quota pro-capite o anche a quella storica, si trova ancora a livelli molto al di sotto dei paesi industrializzati. Fin dall’inizio Narendra Modi a Glasgow ha presentato l’intenzione dell’India di arrivare al saldo zero di emissioni entro il 2070 ed è stata una prima doccia fredda per tutti.

Inoltre, il Sud chiedeva di fissare un obiettivo globale per i fondi per l’adattamento ai cambiamenti climatici, davvero irrisori fino ad oggi. Ritengono che sia una responsabilità del Nord provvedere a tali fondi, come riparazione storica. Il problema non è però solo della quantità dei fondi, ma anche della loro qualità.

Alla COP di Copenaghen nel 2009 si era arrivati all’accordo che i paesi ricchi avrebbero messo a disposizione 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020. Si tratta di una cifra ancora simbolica: i bisogni dei paesi poveri sono nell’ordine delle migliaia di miliardi l’anno, come risulta dai piani nazionali per la mitigazione delle emissioni di gas serra e l’adattamento ai cambiamenti climatici. 100 miliardi non sono in realtà una cifra proibitiva. Basti pensare che corrispondono a solo 1/7 del bilancio militare annuale degli USA. Si tratta cioè di fare delle scelte, non della mancanza di fondi. La presidenza della COP26 ha redatto un piano quadro per la raccolta di queste finanze, ma non si arriverà alla cifra di 100 miliardi prima del 2023. Si vede però con ottimismo che entro il 2025 saranno stati messi a disposizione complessivamente 500 miliardi. Senza finanziamenti, gli stati del Sud non saranno in grado di abbassare le proprie emissioni e di approdare alla transizione verde.

C’è poi la questione della qualità dei finanziamenti, con riferimento alla facilità di accesso, alla flessibilità, alla quota di donazioni e di prestiti agevolati. C’è il timore che il finanziamento della transizione verde comporti un ulteriore ed insostenibile indebitamento dei paesi poveri. Inoltre, per programmare ed implementare dei piani nazionali è necessaria la prevedibilità e continuità dei finanziamenti, che è ancora elusiva oltre il 2025. Per questo a Glasgow si è tanto insistito sulla definizione di un obiettivo (finanziario) globale per l’adattamento ai cambiamenti climatici. È venuto l’impegno raddoppiare questi finanziamenti, ma siamo ancora lontani dalla scala di interventi di cui c’è bisogno.

Alla fine, il tema della giustizia climatica si è fatto strada irresistibilmente anche grazie alla voce dei popoli indigeni, dei piccoli Stati insulari, dei giovani e delle organizzazioni della società civile. Tanto da venire enunciato, per la prima volta, nel documento programmatico della COP.

La questione ruota attorno al fatto che i paesi che meno hanno contribuito alla crisi climatica sono poi quelli che ne vengono più colpiti. Collegato a questo tema c’è anche quello della transizione equa, cioè l’equità nella riduzione delle emissioni, che si può misurare a partire da 4 principi: uguaglianza (emissioni pro-capite), responsabilità (emissioni totali nel tempo), capacità (chiedere di più a chi può fare di più) e il diritto allo sviluppo sostenibile. L’idea è che non bisogna lasciare nessuno indietro e che c’è una responsabilità comune ma differenziata. Per rendere operativi questi principi è necessario avere dei meccanismi di trasparenza che alimentino la fiducia reciproca.

Ma la giustizia climatica ha fatto sì che a Glasgow si sia andati oltre la dimensione dell’adattamento, introducendo ufficialmente – per la prima volta nel documento finale – la nozione di compensazione per le devastazioni dovute ai cambiamenti climatici. Su questo punto gli Stati del Nord geopolitico hanno sempre fatto muro, ma alla fine la pressione è stata tale che è avvenuta la svolta. È una decisione ancora senza finanziamenti, ma almeno è previsto un meccanismo per dare seguito pratico a questa innovazione. In sintesi, il Patto di Glasgow sul clima segna un riequilibrio, almeno di principio, tra le esigenze e le prospettive del Nord e del Sud globali.

I risultati della COP26

Come valutare allora i risultati della COP26? C’è un consenso sul fatto che resti molta strada da fare. Alcuni ritengono che ci siano state comunque delle svolte importanti: per quanto riguarda la mitigazione, c’è l’accordo di rivedere le ambizioni di riduzione delle emissioni ogni anno (anziché ogni cinque), per accelerare l’azione climatica; il 90% delle economie mondiali che si impegna a raggiungere il saldo zero di emissioni attorno al metà del secolo; la stop alla deforestazione nel 91% delle foreste nel mondo (137 Paesi) entro il 2030; l’aver finalmente completato, dopo 6 anni, le regole per la completa implementazione dell’accordo di Parigi; l’avallo delle istanze di riduzione dell’uso del carbone e dell’eliminazione dei sussidi per i combustibili fossili, nonché la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030 da parte di oltre 100 Paesi.

Per quanto riguarda invece l’adattamento, c’è stato l’avallo del concetto di giustizia climatica e l’ammissibilità delle istanze di riparazione per le devastazioni dovute al clima (“Loss and Damage”). Per quanto riguarda il finanziamento per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica, anche se gli Stati ricchi non hanno ancora onorato gli impegni presi, c’è stata la mobilitazione di ingenti capitali privati. Anche se, pur avendo raddoppiato i fondi, siamo ancora lontanissimi dal soddisfare i bisogni reali. Comunque, 80 Paesi hanno elaborato dei piani nazionali di adattamento alla crisi climatica, che è un passaggio fondamentale per indirizzare i finanziamenti.

Le contraddizioni sistemiche

Altri, invece, mettono in risalto le contraddizioni contenute nel Patto per il Clima di Glasgow: la frode dei crediti di carbonio, che permetterà di continuare ad emettere gas serra anziché ridurli; il fatto che le emissioni anziché essere globalmente ridotte continueranno a crescere fino al 2030; la mancata responsabilizzazione delle grandi imprese estrattive; la mancanza di scadenze per la fine dei sussidi ai combustibili fossili e del carbone. I risultati dei negoziati non sono coerenti con le indicazioni che vengono dalla scienza del clima e della giustizia climatica. Il lento progresso che c’è stato è ancora lontanissimo dal minimo necessario, cioè una rapida ed equa eliminazione dei combustibili fossili. E non c’è stata la necessaria solidarietà e risposta alla sofferenza delle nazioni più colpite e vulnerabili.

Ma, soprattutto, sono le questioni sui diritti umani e gli ecosistemi a preoccupare la società civile. La transizione energetica avviene spesso a spese delle comunità locali e dei popoli indigeni, che subiscono gli impatti dell’estrazione dei minerali necessari alla filiera, o perdono la loro terra e ambiente vitale per la costruzione di impianti di energie rinnovabili. E alla fine, non sono le comunità a beneficiare dell’energia prodotta, quanto piuttosto le grandi industrie o, nel caso dell’estrazione dei minerali, ancora una volta le economie del Nord globale. Più in generale, si contesta la narrativa che le nuove tecnologie offrano le soluzioni al problema climatico e che basti ampliarne l’utilizzo a grande scala per raggiungere l’obiettivo del contenimento del riscaldamento globale. Si tratta molto spesso di false soluzioni, che risolvono un aspetto del problema e ne creano altri. In sostanza, il punto è che il paradigma economico che ha causato la crisi climatica non è in grado di risolverla, perché dovrebbe rinunciare alle proprie priorità e scopi.

Il problema di fondo: il modello di sviluppo

Tuttavia, nonostante il contrasto di prospettive tra Nord e Sud, la realtà è che paesi del Nord e del Sud stanno dalla stessa parte, anche se in competizione. Stanno dalla stessa parte nel senso che tutti si pongono nella prospettiva del modello di sviluppo misurato sulla crescita economica, basato sul cosiddetto “libero” mercato, sui profitti e sugli interessi della finanza globale. A Glasgow abbiamo osservato che il bisogno di ridurre le emissioni passa in secondo piano rispetto a quello di far crescere l’economia. Si vorrebbe, ad esempio, completare la transizione energetica senza scossoni, senza che la crescita economica ne risenta. Per questo si vuole continuare ad inquinare fintanto che le energie rinnovabili potranno sostituire completamente i combustibili fossili. Sappiamo però che non c’è tempo per questo. È un atteggiamento ed una scelta che impedirà di contenere il riscaldamento globale. Ne è dimostrazione quanto abbiamo osservato a Glasgow. La diplomazia è riuscita a porre la soglia di 1,5°C come l’obiettivo da raggiungere. La scienza ci dice che allora bisogna ridurre le emissioni del 45% (rispetto ai livelli del 2010) entro il 2030 ed avere un saldo zero delle emissioni entro il 2050. In realtà, al termine della COP26 i dati indicano che siamo sulla traiettoria di un aumento di temperatura di 2,4°C a fine secolo e che, anziché ridurre le emissioni, nel 2030 queste aumenteranno del 13,7%.

La domanda se a Glasgow ci sia stato o meno un successo, e in che misura, trova risposte diverse a seconda del punto di vista. Dalla prospettiva del libero mercato si può certamente parlare di un successo, come conferma l’adesione entusiasta dei grandi gruppi finanziari e industriali che spingono per l’innovazione e la transizione ecologica. Ma dal punto di vista di chi sta soffrendo e scomparendo dalla faccia della Terra per il riscaldamento globale, di chi è sulla linea del fronte degli impatti ambientali, dei diritti umani e dei popoli, certamente è stata un’altra grande delusione.

Ciò nonostante, la COP rimane un imprescindibile spazio di incontro e di dialogo di prospettive diverse. É l’unico posto dove le organizzazioni della società civile possono incontrarsi e confrontarsi con i grandi del mondo, propugnare un’idea di sviluppo e delle pratiche veramente sostenibili. A Glasgow sono passati soltanto alcuni principi generali perorati dalla società civile e qualche suo suggerimento di percorsi da seguire. È ancora poco per influenzare il sistema. Se si vuole risolvere veramente la crisi climatica, bisognerà adottare un nuovo paradigma di sviluppo.

In effetti, dalla società civile – popoli indigeni, giovani, donne, organizzazioni ambientaliste, ecc. – viene un’altra visione di sviluppo, che propone percorsi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica basati sulle evidenze scientifiche e sui diritti umani, sulle conoscenze e sulla saggezza dei popoli indigeni e delle comunità locali. La loro visione affonda le proprie radici nella stretta connessione materiale e spirituale con il territorio e la Terra, con le sue risorse naturali, con gli ecosistemi. Ciò significa mettere i popoli ed il pianeta al primo posto, non i profitti.

ALLA LUCE DELLA FEDE PER DISCERNERE UN PERCORSO

L’esperienza della COP26 ci ha lasciati in una sorta di dilemma. Da una lato bisogna apprezzare il grande sforzo della Presidenza di imprimere un cambio di passo all’azione per il clima. Bisogna anche riconoscere il suo esercizio di ascolto e di integrazione di diverse voci nelle deliberazioni. La ricerca della collaborazione tra Stati, settore privato e società civile non è mera retorica. Ma accelerare la transizione non è una cosa semplice, considerando che ciò deve avvenire con il consenso di tutte le Parti, che hanno interessi contrastanti. Come detto, si sono avute delle piccole svolte, alcune anche oltre quello che era l’ordine del giorno della COP26 (cf. “giustizia climatica” e “Loss and Damage”). L’approccio è pragmatico: cercare di accelerare il più possibile la transizione ecologica sfruttando tutte le possibilità a portata di mano. Un pezzettino alla volta, lavorando su più fronti, innovando con la ricerca e sviluppo di nuove tecnologie che possono attrarre ingenti investimenti privati in vista di nuovi mercati, crescita economica e nuovi posti di lavoro verdi.

Dall’altra parte, constatiamo che se l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media entro 1,5°C alla fine del secolo è ancora raggiungibile, siamo però ancora lontani dall’avere le condizioni necessarie per riuscirci. Del resto, bisogna anche considerare che gli Stati hanno dei bisogni pressanti da soddisfare. Per esempio l’India, che ha drammaticamente tenuto in scacco la COP26 proprio sul filo di lana, annacquando la risoluzione sul carbone, ha ancora milioni di persone senza energia elettrica. Ma si pensi anche alla Francia, ora paladina del “nucleare verde” (altra contraddizione), che quando qualche anno fa ha cercato di introdurre politiche di riduzione dei combustibili fossili si è ritrovata con la rivolta dei gillet gialli in casa che ha paralizzato il paese. Clima e bisogni fondamentali sembrano incompatibili tanto nel Nord quanto nel Sud globali. In sostanza, sembra che non ci sia veramente una via d’uscita, e che molto probabilmente supereremo la soglia di 1,5°C di aumento di temperatura media questo secolo. Almeno finché rimaniamo nella prospettiva del modello di sviluppo corrente.

Ma se guardiamo a questa situazione da una prospettiva di fede, che cosa vediamo?

La giustizia nel mondo (Iustitia in mundo – IiM)

È interessante che proprio in questi giorni (il 30 novembre, per la precisione) ricorra il 50° anniversario del documento del sinodo dei vescovi intitolato La giustizia nel mondo. Si tratta di una pietra miliare del magistero sociale della Chiesa, un documento profetico tutt’ora di grande attualità. In particolare, ci offre una prospettiva per il discernimento sulla questione della giustizia climatica. Anzitutto, il documento ci suggerisce il punto di vista da cui guardare la realtà: “ascoltare il grido di coloro che soffrono la violenza e sono oppressi da sistemi e strutture ingiuste e ascoltando l’appello di un mondo che con la sua perversità contraddice il piano del suo Creatore” (IiM 5). La COP26 ha portato alla ribalta la voce dei giovani, che vedono il loro futuro irrimediabilmente compromesso; i piccoli stati insulari, che rischiano di scomparire nel giro di qualche decennio; i popoli indigeni, che stanno perdendo i loro territori e ecosistemi vitali, pur avendo le conoscenze e le via per la salvaguardia delle foreste, i polmoni della Terra. Così come anche le tante comunità locali che hanno perso i diritti fondamentali e il sostentamento per lo sfruttamento dell’economia estrattiva globalizzata. IiM (e sulla sua scia anche la Laudato si’) ci invita ad ascoltare questo grido, che è il grido dei poveri e della Terra: “abbiamo avvertito un intimo movimento che scuote il mondo dalle sue profondità… (che rappresenta) un contributo per la promozione della giustizia. Si sviluppa nei raggruppamenti umani… una nuova consapevolezza, che li scuote da un rassegnato fatalismo e li invita a volere la propria liberazione e la responsabilità del proprio destino”.

Siamo nella prima settimana di Avvento e il vangelo che abbiamo ascoltato domenica (Lc 21,25-28.34-36) Gesù annuncia la sua venuta gloriosa, che avviene nel contesto dello sconvolgimento dei sistemi di potere dominanti.

20Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. (…) 25Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. 27Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. 28Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.

Mi colpisce una cosa: a Glasgow ho visto che i giovani, i popoli indigeni, i gruppi di donne dal Sud globale, i piccoli Stati insulari non temono gli inevitabili shock che un cambiamento sistemico comporterebbe. Semplicemente perché stanno già pagando pesantemente le contraddizioni del sistema dominante, dal quale non hanno benefici e soprattutto non hanno futuro.

Il cambio di paradigma di sviluppo comporta uno sconvolgimento che genera paura. Lo ha sperimentato S. Agostino, nell’esperienza della caduta dell’Impero romano. Ed anche noi oggi possiamo trovarci così integrati in una società ingiusta, quella che deve scomparire, da non riuscire ad immaginare la possibilità di un nuovo ordine mondiale. Le parole di Gesù ci invitano invece a non conformarci alla mentalità di questo mondo, e quando comincia il cambiamento, con i suoi squilibri, pericoli e pesanti costi, i discepoli sono chiamati a risollevarsi, ad alzare il capo perché la loro liberazione è vicina. Gesù garantisce che la forza del Vangelo sarà superiore a qualsiasi forza di dominio. L’alternativa viene con la potenza dell’amore che si fa generosità, servizio, solidarietà.

IiM ci incoraggia comunicandoci che la speranza di un superamento della crisi climatica si fonda sulla fiducia che non siamo soli: la trasformazione del mondo nella direzione del bene comune, di relazioni che generano vita, della sostenibilità socio-economica e ambientale, in ultima istanza è compresa nel processo di rivelazione del Regno di Dio, già presente ma non ancora pienamente realizzato. La trasformazione avviene nella speranza che la potenza dello Spirito Santo è già all’opera nel mondo e che il Regno di Dio è già presente. L’impegno di tutti è necessario, anche al di là dei confini della Chiesa, ma non si tratta semplicemente di elaborare nuovi piani e progetti. C’è bisogno di una conversione, perché il peccato personale finisce per consolidarsi in peccato sociale e in strutture di peccato. Una trasformazione autentica richiede la dinamica del mistero pasquale, una trasformazione delle persone ad una piena umanità nella loro comunione con Dio. Tale pienezza è impedita dalla realtà del peccato, ma la liberazione di Cristo dal peccato la rende possibile. La crisi climatica, che è anche crisi socio-economica e crisi antropologica, è uno dei segni dei tempi più emblematici di questa nostra epoca, come sottolineato da papa Francesco. Il Vangelo deve raggiungere questo areopago contemporaneo.

Il ruolo della chiesa

La giustizia nel mondo ci ricorda che il ruolo della Chiesa non è quello tecnico di indicare soluzioni pratiche in ambito sociale, economico e politico; ma difendere e promuovere la dignità e i diritti fondamentali della persona umana (GM 37). Il Vangelo è un dono al mondo per riconoscere e superare la crisi antropologica che sta all’origine della crisi climatica (cf. CiV, EG, LS, FT). Inoltre, proprio il documento La giustizia nel mondo dichiara che agire per la giustizia e la partecipazione nella trasformazione del mondo sono una parte costitutiva dell’annuncio del Vangelo (GM 6). La missione, come dialogo profetico, si snoda a partire dalla presenza vicino agli esclusi, dall’ascolto del loro grido e del grido della Terra, dall’ascolto della realtà attraverso il loro vissuto, stabilendo un dialogo con la loro prospettiva socio-culturale e spirituale. Ed in questo dialogo sincero si presenta l’occasione dell’annuncio profetico del Vangelo e della testimonianza cristiana della partecipazione ad una società di contrasto, per essere un segno per il mondo di come probabilmente il Regno di Dio potrebbe apparire. Va letta in questo senso anche l’iniziativa voluta da papa Francesco che va sotto il nome di Piattaforma di iniziative Laudato si’ (PILS), che invita tutto il mondo cattolico ad una conversione ecologica, attraverso un percorso di 7 anni per raggiungere a sostenibilità nello spirito dell’Ecologia Integrale promossa dalla Laudato si’. L’idea è quella di sviluppare un movimento popolare “glocale”, che includa comunità cristiane, popoli e comunità locali marginalizzate e oppresse, e organizzazioni della società civile. Un movimento capace di proporre un diverso modello di sviluppo e di riportare le scelte politiche sul terreno del bene comune, della solidarietà, degli stili di vita e di produzione-consumo entro i limiti della sostenibilità, superando il modello dell’economia estrattivista, con la priorità della crescita economica e dei profitti. Nel contesto della COP, tutto questo ha due implicazioni: anzitutto promuovere un modello di sviluppo che porti a priorità e scelte politiche diverse; è fondamentale creare degli spazi di incontro, di dialogo, di condivisione, in cui la voce degli ultimi possa trovare ascolto ed evocare l’umanità che tutti ci unisce. In secondo luogo, bisogna fare costantemente pressione sui governi nazionali affinché mantengano gli impegni presi. Questo è un impegno fondamentale se si vuole dare seguito con i fatti alle dichiarazioni e accordi raggiunti, che non sono soggetti a sanzioni in caso non vengano rispettati.

In conclusione

Raccogliendo queste considerazioni, si rafforza la motivazione per un impegno per la giustizia climatica e l’ecologia integrale. Così VIVAT International è chiamata a prendere in considerazione varie risposte alla crisi climatica, come ad esempio:

= Posizionarsi vicino a chi soffre ed è più colpito dalla crisi climatica, in ascolto del loro grido e di quello della Terra.

= Non si può operare in isolamento: bisogna partecipare nel cammino di qualche circoscrizione della società civile. VIVAT è chiamata a coinvolgersi con il gruppo di ONG ambientaliste e con il gruppo inter-religioso delle fedi per la giustizia climatica, in cui al momento si riscontra tristemente un’assenza di partecipanti cattolici. Si tratta di un cammino continuo, di dialogo, confronto, collaborazione, e advocacy, che ha nelle due settimane della COP il momento più importante, ma che presuppone tanto una preparazione che un seguito alle decisioni prese.

= Creare spazi di incontro per far arrivare la voce degli esclusi fino ai luoghi dove vengono decise le politiche per il clima.

= Contribuire a promuovere un movimento popolare globale per l’Ecologia Integrale, nell’ottica del dialogo profetico e promuovere un paradigma di sviluppo basato sulla nozione dell’ecologia integrale.

= Aderire alla Piattaforma di iniziative Laudato si, testimonianza in azione e impegno concreto per la transizione ecologica.

= Fare pressione sui governi nazionali perché mantengano gli impegni presi a Glasgow.

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